Si sbraccia da più di una settimana dicendo che “al nostro gruppo l’Alitalia non interessa” e soprattutto che “per quanto ci riguarda, non abbiamo affidato a nessun advisor il compito di un piano di integrazione delle due società di trasporto”.

A parlare è il capo delle Ferrovie Italiane, Mauro Moretti, ripreso dalle penne di Dagospia qualche giorno fa a Roma, proprio sul caso che lo vede protagonista della scena industriale: quel piano di integrazione orizzontale che vedrebbe il gruppo Alitalia – mai come oggi in difficoltà industriali – fondersi con il colosso dei FrecciaRossa, i treni di stato.

Il caso è di quelli da copertina del Time: aziende importanti in difficoltà, “strategiche” o feconde di interessi nazionali, pronte a ricorrere di nuovo a lui, al contribuente, per continuare ad andare avanti.

L’Alitalia, si sa, non va benissimo. Secondo le ultime indiscrezioni nelle casse della Magliana ci sarebbero liquidità sufficienti per volare fino a marzo. Con l’esaurimento del “cassetto” poi, trovare i soldi per pagare gli stipendi di piloti e hostess potrebbe essere un’utopia, così come persino per far decollare gli aerei e pagare i gestori aeroportuali.

Oltre a questo, nell’ultimo periodo imperversano i casini di Carpatair, quelli della “sbianchettattura dei loghi” di bandiera, i ferri cortissimi con i principali operatori aeroportuali – da Fiumicino, dove da settimane impazza la rabbia per i mancati pagamenti della compagnia dei servizi al gestore, fino a Milano dove da tempo il vettore chiede a ribasso la revisione delle tariffe per i servizi aeroportuali.  

Insomma alla Magliana tira aria di maretta. Se a tutto ciò aggiungiamo una gestione fallimentare del core business – l’Ad Ragnetti non naviga in buone acque – la cecità di aver chiuso la tratta Roma-Pechino (unica rotta che collega la capitale con il gigante d’Oriente) e l’ingresso nel mercato di Easyjet sulla tratta Roma-Milano, bhè per Alitalia è chiaro che il tempo dei sorci verdi è già arrivato.

In questo quadro di desolazione industriale è irrotto il pericolo n.1 Mauro Moretti che, come avevamo già avuto modo di raccontare da queste colonne, ha puntato gli occhi sul vettore di bandiera che, con l’aplomb di chi sa il fatto suo nelle stanze del potere, sta tentando di accaparrarsi il pancione degli aerei di Stato.

L’Alitalia vale 1 miliardo di euro. Una cifra fattibile, per un gruppo solido come quello delle Ferrovie. Un boccone molto prezioso per molti industriali che permetterebbe allo Stato – per mano delle Ferrovie, e quindi del Ministero dell’Economia – di tornare a controllare il 90% del sistema dei trasporti italiani di medio e breve raggio.

Alitalia, nelle prossime settimane, dovrà decidere se restare indipendente – e fallire, portandosi dietro quello strascico sociale tipico di un fallimento industriale (che i salotti della Roma dei partiti stanno tentando di evitare) – se entrare a far parte di un’alleanza più grande – come quella prospettata dagli emiri di Etihad o dai francesi di Air France – e sottoporsi alla tagliola del socio efficiente (con il rischio di tagli di posti di lavoro. Operazione scomoda per i protettorati interni e le alte dirigenze) – oppure se rimanere italiana, mantenere in forza i dipendenti e continuare quella storia di ammortizzatore sociale che da sempre racconta nella Capitale, nel Lazio e in genere un po’ in tutta Italia.

Il tempo comunque per Alitalia stringe e la decisione non è facile. Il 15 febbraio, a Milano, si sono riuniti i soci con l’intento di tenere in volo la compagnia ancora per qualche mese.

Risultato: un prestito da 150 milioni di euro. L’Ultimo. Liquidità a fiato corto che poco servirà se non a pagare qualche mese di stipendi e a tamponare una falla che ormai fa acqua da tutte le parti. Aspettando il rinnovo del Governo e l’arrivo del capitale pubblico.

Già, il nuovo Governo. Sta proprio qui la chiave di volta per lo sblocco del piano Ferrovie-Alitalia, già al vaglio della società di consulenza Boston Consulting.

In attesa che al Ministero del Tesoro e a quello delle Infrastrutture arrivino Ministri amici di Alitalia. Magari già lo stesso Moretti, o qualche altro come Colaninno o Sabelli. Ministri amici anche delle Ferrovie, chiamati a valutare la compagnia di bandiera, a darne un prezzo e a collocare il peso dell’acquisto su sintomatici buoni del Tesoro, da collocare presso i retail, da far acquistare ai risparmiatori. Sempre loro. Oppure da pagare con qualche centesimo di accisa sui carburanti. Una storia già vista. Una storia che stufa e che questa volta però, va fermata. Prima che cambi il Governo.

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