La sera stessa  delle elezioni è cominciato il coro assordante che esalta Grillo come il vincitore assoluto. Cosa esatta se si considera l’aver conquistato, partendo da zero, il 25% dell’elettorato; inesatta, invece, se si considerano i risultati pratici, perché le elezioni può dire di averle vinte chi poi è in grado di governare il Paese. Per il M5S ha votato un italiano su quattro, cioè che vuol dire che tre su quattro hanno votato altrimenti; in democrazia, non si governa col 25% dei voti (ciò vale del resto anche per PD e PDL, ognuno dei quali conta su meno di un elettore su tre). La provocatoria richiesta che le forze politiche diano in mano a Grillo il governo  mostra perciò solo disprezzo per gli elettori.

L’abitudine a proclamarsi vincitori è però diffusa. Leggo  le dichiarazioni del coordinatore del PDL, Verdini, che dice che il suo partito ha vinto le elezioni. Ma dove? È riuscito a rimontare rispetto alle previsioni, a prezzo di  sfrenate promesse a tutto e a tutti, ma ha perso milioni di voti rispetto al 2008 e non è in grado di governare da solo; anzi, rischia di essere marginalizzato. Dunque ha perso, come ha perso il PD (Bersani ha avuto la decenza di ammetterlo) e come ha perso – e male – il Centro.  Riconosciamo la verità: nelle elezioni di fine febbraio non ha vinto nessuno; ha vinto l’ingovernabilità, ha perso il Paese. Ringraziamo di questo bel risultato quelli che si sono astenuti, privando la democrazia dell’ossigeno essenziale del voto, ma ringraziamo soprattutto una classe politica sorda e cieca, che non ha saputo capire quello che il Paese reclamava a gran forza, che ha saputo accordarsi per imporgli sacrifici pesanti ma di sacrifici essa stessa ne ha fatti pochissimi: non uno stipendio diminuito, non una provincia abolita, non un privilegio soppresso.

Ma, ripeto, Grillo non ha vinto ed, anzi, oggi si trova in una  situazione contraddittoria, come e più di Bersani (non così Berlusconi, che può stare alla finestra, lasciando gli altri scannarsi tra di loro e pronunciandosi  da “statista responsabile”). M5S ha conquistato un quarto dell’elettorato aggredendo tutto e tutti: non ci voleva molto, con una classe politica così inetta e in un Paese sfiancato dalla crisi economica e finanziaria. Imprese analoghe erano riuscite in passato a Mussolini e a Hitler. Ma ora Grillo deve decidere cosa fare della forza parlamentare che ha in mano. Appoggia un governo della sinistra o sposta dalle piazze alle aule parlamentari una posizione di pura protesta? Ambedue le possibilità comportano  rischi: sostenere un governo del PD significa in qualche modo omologarsi al sistema. Fare solo opposizione significa scontentare quella parte dell’elettorato del M5S che oggi si pronuncia a favore di un accordo e mostrare l’inutilità di una forza parlamentare, consistente sì, ma da sola insufficiente. Specularmente, la strategia del PD è perciò  di incalzarlo e costringerlo a una difficile scelta, contando che nuove elezioni  permettano di recuperare quella  parte dell’elettorato grillino che si considera di sinistra (basterebbe il 5% per ribaltare la situazione). Magari giocandosi (ma ci credo poco) la carta Renzi per attrarre altri consensi.

Grillo continua finora  a rispondere picche, nel tentativo di costringere  PDL e PD a un accordo o, in alternativa, di provocare l’implosione del sistema, perché dal suo punto di vista, tanto peggio è tanto meglio e il suo ideale resta di andare alle elezioni in condizioni insostenibili per il Paese. Notiamo appena che, in questo scenario, il Nord governato dalla Lega troverebbe ampie ragioni e opportunità per accentuare il suo distacco dal resto del Paese.

Vedremo se il leader di M5S potrà mantenere pieno controllo su tutti i suoi eletti (riteniamo di si, almeno in una prima fase).Vedremo come evolveranno (se evolveranno) le opposte strategie. Diciamo però subito che esse sono dettate da interessi di parte che ben poco hanno a che fare con quelli del Paese. Nelle dichiarazioni della cupola del PD si ascoltano preoccupati richiami al “suicidio politico” in caso di accordo col PDL. Ma suicidio per chi? Non certo per l’Italia!

Frustrare questi calcoli non è peraltro impossibile. Il piano di Bersani che, in mancanza di un assai improbabile voto di fiducia, punta a nuove elezioni subito, trova un limite assoluto nel fatto che il Presidente Napolitano, essendo nel semestre bianco, non può sciogliere il Parlamento (lo avevamo ricordato nella nota intitolata “Nel tunnel”  prima che lo stesso Presidente lo ricordasse a tutti). Per aver successo, il piano richiederebbe perciò dimissioni anticipate del Capo dello Stato, che permettessero l’elezione a brevissima scadenza di un nuovo Presidente nella pienezza dei suoi poteri. Rinuncerà Napolitano? Non è affatto da escludere, ma noi ci auguriamo che sia invece lui ad affrontare questa difficilissima fase della nostra vita istituzionale, guidandoci verso la sola soluzione compatibile con l’interesse del Paese: un accordo PD-PDL-Centro che permetta di fare  poche cose significative: legge elettorale alla francese, drastico taglio ai costi della politica, diminuzione della spesa pubblica e dismissione di una parte del patrimonio statale, con una corrispondente diminuzione della pressione fiscale che porti a un rilancio dell’economia, e negoziato con l’Europa sui tempi del fiscal compact. Un programma limitato ma serio, per una durata ragionevole, per poi andare all’ineludibile appuntamento elettorale in condizioni migliori per il Paese e avendo dimostrato alla gente di aver compreso e rispettato i suoi reclami. Soluzione di gran lunga migliore che mettere nelle mani di Grillo il destino di tutti.

Purtroppo,  non crediamo molto nel senso di responsabilità di tanti  dirigenti del PD (un consiglio a Bersani: dica a Fassina di stare zitto ogni tanto). Possiamo solo sperare  che il Capo dello Stato proceda per il meglio, con la saggezza abituale e con polso fermissimo. Il 75% degli italiani che non vuole finire in mano a Grillo gliene sarebbe riconoscente.

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