Che si tratti di rinascita culturale, rivoluzione politica o solo di una mossa ad effetto per non farsi travolgere dall’ondata populista è ancora presto per dirlo, però quanto si sta sviluppando presso Palazzo d’Orleans, la sede della Presidenza della Regione Sicilia, è oggettivamente degno di nota ed attenzione.
Dopo la stagione della Seconda Repubblica caratterizzata da tante parole, ma dal nulla in termini di coerenza e conversione delle parole stesse in un percorso riformista capace di modernizzare e snellire le Istituzioni, giunge, quasi come un fulmine a ciel sereno, l’iniziativa della Regione Sicilia volta all’abolizione del Istituto delle Province.
La Giunta regionale ha recentemente approvato un disegno di Legge che, per la prima volta, mette in pratica quanto previsto dallo Statuto Speciale della Regione (articolo 15). Le nove Province dell’Isola, in quanto organismi elettivi, vengono soppresse e sostituite da “Liberi Consorzi Comunali”, ciascuno dei quali retto, in base alla proposta che integrerebbe lo Statuto, da un Sindaco eletto dagli altri Sindaci del comprensorio.
A dire il vero, la presenza delle Province siciliane potrebbe essere interpretata come una anomalia strutturale, imputabile alla non-applicazione dello Statuto Speciale che, di fatto, non le prevedeva. La gestione delle stesse ha, fin qui, pesato 700 milioni di euro l’anno; 12 milioni il risparmio previsto per le indennità di Presidenti, Assessori e consiglieri.
Per venire applicata, però, la riforma deve fare i conti con la burocrazia e scontrarsi contro prevedibili resistenze di gruppi di potere trasversali per i quali le Province rimangono più che appetibili in quanto utili “poltronifici” o personali o per accontentare, nei giochi interni ai partiti, chi non raggiunga posizioni politiche di maggior rilievo, prestigio e retribuzione.
Il termine utile per portare a buon termine, approvandolo, il processo di riforma è fine mese, prima che vengano convocati i comizi elettorali (27 marzo) per la tornata elettorale che dovrebbe coinvolgere gli enti locali giunti a fine mandato i quali, se non soppressi, dovranno andare a rinnovo a maggio, alla naturale scadenza degli stessi.
Augurandoci che tale iniziativa abbia miglior sorte delle tante promesse cadute nel vuoto tra le quali, ultima in ordine di tempo, l’iniziativa del Governo Monti, impantanata prima ed affossata poi dagli stessi partiti che lo sostenevano, va rilevato come, diversamente dalle precedenti, nella proposta siciliana non vengano eliminati gli organismi intermedi tra Comune e Regione, ma vengano sostituiti da Enti che, salvo stravolgimenti della logica alla base dell’iniziativa stessa, dovrebbero ridurre i costi di gestione in quanto organi di programmazione territoriale che potremmo definire supervisionati dai Comuni.
Dettaglio di peso, questo, che dovrebbe conferire solidità al tema “aboliamo le province” liberandolo da quella nebbia di irrealizzabilità che stava cominciando ad avvolgerlo a causa della mancanza di dettagli, per assenza di volontà di portarlo a compimento, nelle ipotesi avanzate negli ultimi anni da parte dei partiti maggiori.
Se, messi alla prova i “Liberi Consorzi Comunali” e gli amministratori coinvolti, saranno confermati e troveranno riscontro i requisiti di una amministrazione attenta e buonafede nelle scelte, non potranno che vedersi alleggeriti ed ottimizzati i costi, ad esempio, nella condivisione di risorse per polizia locale, servizi sociali e gestione dei servizi.
Punti e dettagli, invece, che si riveleranno fatalmente critici e dovranno essere oggetto di approfondimento per evitare effetti collaterali e caos amministrativo sono la gestione dei 6mila dipendenti delle Province che saranno assorbiti, secondo le intenzioni della Regione, dai Comuni e dalla Regione stessa, la gestione delle strade provinciali e degli edifici scolastici; per non parlare dei mutui, circa 380 milioni di euro, contratti dalle Province.
La Sicilia, additata da più fronti, tra le quali una grezza propaganda anti-meridionalista, come uno dei principali simboli nazionali di corruzione e spreco, talvolta non senza argomentazioni, a causa dei risultati di uno sciagurato mix di inefficienza dello Stato e di una classe politica dirigente, nazionale e locale, inadeguata a rappresentare la storia e le nobili radici di questa terra intrisa di cultura, passa ora alla ribalta per questa iniziativa innovatrice e politicamente coraggiosa.
Se dalla Sicilia emergerà, contro chi tenterà di affossarla per interesse, una riforma sostanziale ed efficace, non annacquata o stravolta a seguito di qualche emendamento-agguato, la classe politica nazionale potrebbe essere obbligata, grazie ad una adeguata campagna di sensibilizzazione politica ed ad un’azione mediatica benevola, a seguire il filone riformista.
In un tale scenario, gestito da forze sane e responsabili in contrapposizione ai personalismi ed alla deriva populista della politica, avrebbe buone chance di inserirsi, fosse la volta buona, un sano riformismo liberale giustificabile, ma soprattutto giustificato, con la necessità di modernizzazione, culturale ancor prima che istituzionale, del Paese.
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