Nel suo celebre Saggio sulla libertà John Stuart Mill mette nero su bianco il significato pratico della libertà civile o sociale, ossia la libertà di poter fare, di poter credere e non credere, di poter esprimere la propria opinione. L’unico limite è il rispetto dell’Altro. “Il solo aspetto della propria condotta di cui ciascuno deve rendere conto alla società è quello riguardante gli altri: per l’aspetto che riguarda soltanto lui la sua indipendenza è, di diritto, assoluta. Su se stesso, sulla sua mente e sul corpo, l’individuo è sovrano”.

La pluralità dei modi di essere, delle opinioni e quindi degli individui rappresenta, in pratica, un fattore essenziale di sviluppo e di civiltà, di crescita civile e di incremento dell’intelligenza collettiva, oltreché di incremento delle intelligenze individuali. La vera ricchezza di un popolo è la sua intelligenza ed il suo senso critico oltreché la sua diversità di caratteri. “L’identità di opinioni – afferma Mill – non è una cosa auspicabile, a meno di non essere il risultato del più completo e libero confronto fra opinioni contrarie, […] questi principi si possono applicare non solo alle opinioni degli uomini, ma anche ai loro diversi modi di agire”.

Sostenendo la necessità, per lo sviluppo della libertà nella società, dell’esistenza di opinioni diverse e contrastanti, purché espresse in forma corretta, civile e senza arrecare danno all’Altro e, inoltre, riservando ad ogni individuo la possibilità di testare le diverse opinioni attraverso l’esperienza, Mill struttura il significato del moderno concetto di ‘pluralismo’, estraneo al suo tempo.

In definitiva la condizione necessaria allo sviluppo della libertà è l’esistenza di una società civile ed avanzata in cui vige una sana ed utile ‘dialettica’ di pensiero, più che uno sterile conformismo o la mancanza di senso critico.

Nella società contemporanea al conformismo e alla mancanza di senso critico si aggiungono le manie di leaderismo e di totalitarismo, che non tollerano contestazioni e che tendono a soffocare la pluralità delle voci riconducendo ad un eventuale leader o, nel peggiore dei casi, ad un mero trascinatore di coscienze, le sorti di un partito o di un movimento.

Populismo, antipolitica, fanatismo, demagogia, campagne moralizzatrici che sostengono una nuova politica che, in verità, è un’antipolitica: sono queste le forme degenerative di un pluralismo malato di leaderismo che non mira costruire una dialettica a favore dell’unità e della continuità nel nostro Paese ma, al contrario, l’obiettivo è la mera reversibilità del sistema esistente, denunciando l’operato delle istituzioni e mettendo in discussione le stesse fondamenta della Repubblica, a partire dall’attività della Presidenza.

È proprio da Giorgio Napolitano che proviene l’ennesimo monito rivolto a tutte le forze politiche, nessuna esclusa. Il presidente della Repubblica lamenta l’inconcludenza dilagante, i duri attacchi al suo operato – a partire dalla scelta di costituire le due commissioni di ‘saggi’. “Non stiamo perdendo tempo”, risponde Napolitano a Matteo Renzi. Lo stesso ‘saggio’ Valerio Onida, vittima di uno screzio radiofonico, si è lasciato sfuggire un incauto giudizio sull’azione delle due commissioni volute da Napolitano, definendo “inutile” il lavoro del gruppo di ‘saggi’ del quale egli stesso è stato chiamato a far parte, e il cui reale scopo sarebbe, per Onida, “coprire il momento di stallo” in cui si è venuta a trovare la politica italiana dopo il voto di febbraio. Pronto a dare le dimissioni, Onida riceve invece da un gelido Napolitano l’invito a “rispondere alle provocazioni con la responsabilità”.

Un clima politico a dir poco burrascoso, un frangente insolito e traballante in cui l’ultimo evento annunciato sul quale cade l’attenzione è l’incontro tra Bersani e Berlusconi, non a caso un incontro tra leader. “Vedrò Berlusconi in questi giorni, ragioneremo sul metodo”, conferma il leader del Pd anche se subito dopo, ribadendo la sua vecchia indisponibilità ad un governo di “larghe intese”, precisa: “Le formule di governissimo sarebbero un’occasione per ribadire il distacco degli italiani dalla politica. Ci possono essere nuove formule? Non lo so, le valuterà il prossimo presidente della Repubblica, spetterà a lui valutarle”. Una sferzata anche a Napolitano, quindi.

Il presidente della Repubblica però non si arrende e, denunciando lo stallo in cui versa il Paese, invita le forze politiche alla collaborazione, fa affidamento, ancora una volta, sulla loro forza di responsabilità e ribadisce la necessità di trovare un punto di incontro su un governo che affronti le emergenze del Paese. Lo ha fatto elogiando le “larghe intese” del 1976 e il cosiddetto “compromesso storico”, auspicandosi che anche oggi le forze politiche siano disposte ad instaurare un governo di “solidarietà nazionale” per il bene del Paese. Oggi però, a differenza di allora, non ci sono le condizioni per poter ripetere la svolta storica del 1976: la statura dei nostri politici non è la stessa di quella di Chiaromonte, Moro o Berlinguer e la fiducia del presidente Napolitano è a dir poco generosa nei loro confronti.

Nell’attuale clima di pluralismo malato di leaderismo ciò che tende a prevalere è la volontà di scontrarsi con l’Altro. “A Silvio dirò: ti conosco mascherina”, sottolinea Bersani. Negli anni ’70 erano altri tempi, altri interlocutori, un’altra politica, un altro coraggio, un’altra forza di responsabilità, un altro linguaggio. “Ci volle coraggio – precisa Napolitano – per quella scelta di inedita larga intesa e solidarietà, imposta da minacce e prove che per l’Italia si chiamavano inflazione e situazione finanziaria fuori controllo e aggressione terroristica allo Stato democratico come degenerazione ultima dell’estremismo demagogico”. Oggi, invece, nonostante la strenua forza del Capo dello Stato – che a pochi giorni dalla scadenza del suo settennato, vissuto (è proprio il caso di dirlo) intensamente fino alla fine, non rinuncia a dare alle diverse forze politiche esemplari lezioni di pedagogia istituzionale in un sistema politico malato – il compromesso è già stato definito “antistorico”.

Napolitano comunque non si rassegna, di fronte ad un tri-polarismo bloccato che paralizza il Paese e ad un’anarchia grillina che pensa di portare una ventata di rinnovamento semplicemente occupando il Parlamento e leggendo la Costituzione, senza però conoscere ‘i pesi e i contrappesi’- dettati, per l’appunto, dalla nostra Costituzione repubblicana – di uno Stato di diritto. In questo contesto si inserisce anche la formazione delle Commissioni che riempie la bocca dei grillini in questi giorni e che, per prassi istituzionale, non può essere avviata senza la precedente formazione di un nuovo governo che ne legittimi l’esistenza. Il potere esecutivo, infine, è un potere espressamente sancito dalla Costituzione che non può essere arbitrariamente violato o addirittura eliminato, a meno che non si intenda riscrivere le leggi di un diritto ormai secolare, sul quale si fonda la stessa esistenza di uno Stato di diritto.

Napolitano, il capo dello Stato, invoca giustamente le “larghe intese”, soprattutto tra le due maggiori forze politiche in campo, ciò che sarebbe auspicabile in qualsiasi altra liberaldemocrazia europea. In Italia invece la democrazia liberale sembra essersi nascosta sotto la sabbia o, almeno, prevale la volontà di debilitarla. Il dialogo è diventato un mero strumento ideologico; la negoziazione prevale sul compromesso politico; l’accordo viene sostituito con il baratto delle cariche istituzionali.

Di certo, un accordo programmatico e costruttivo tra sinistra e destra risolleverebbe “le magnifiche sorti e progressive” del Paese, lenendone i disagi sociali e ridonando alla politica quel minimo di unità nazionale che negli ultimi anni è stata incarnata esclusivamente dal presidente della Repubblica. L’accordo rimetterebbe in moto l’economia, riaprirebbe la strada dei mercati europei ed internazionali, farebbe da apripista per le riforme istituzionali e costituzionali da concretizzare urgentemente. L’accordo arginerebbe, infine, lo tsunami M5S che con la sua grande ondata pensa di travolgere tutto e tutti per poi ricostruire sulle macerie un sistema nuovo, magari più totalitario e leaderistico del precedente, fondato sull’estremo disprezzo del professionismo politico – inteso come male assoluto – e imperniato sull’idea dell’inutilità delle istituzioni e della divisione dei poteri, e quindi sulla negazione dello Stato di diritto.
L’invito profondo di Napolitano è, in definitiva, proprio il superamento di uno sterile pluralismo malato di leaderismo che deturpa la politica e le istituzioni. Un pluralismo (malato) che, dando voce a una moltitudine di grilli parlanti – a sinistra come a destra, e come al centro – sembra aver smarrito la sua dignità politica. Non a caso, dall’alto della sua statura politica ed istituzionale e in maniera espressamente liberale, il capo dello Stato auspica uno slancio di responsabilità da parte di tutte le forze politiche per evitare che la democrazia degeneri in estrema demagogia. “La democrazia, smarrendo la severità dell’idea liberale, trapassa nella demagogia e, di là, nella dittatura”, ammoniva il maestro liberale Benedetto Croce.

Con lo sguardo rivolto all’oggi, rimarcando l’importanza storica della svolta del 1976 e ricordando la figura del suo compagno Gerardo Chiaromonte, Napolitano ribadisce: “ Al di là di ogni discorso ristretto all’area delle forze di sinistra, il senso di una funzione e responsabilità nazionale democratica guidò Chiaromonte nella grande crisi e svolta del 1976, impegnandolo in prima linea al fianco di Enrico Berlinguer nella scelta e nella gestione di una collaborazione di governo con la Democrazia Cristiana dopo decenni di netta opposizione”. Un messaggio forte e chiaro che non lascia spazio a inutili fraintendimenti o digressioni di senso. Il capo dello Stato rimarca il valore costruttivo della “visione della politica come responsabilità cui non ci si può sottrarre, e di cui si deve rispondere in primo luogo a se stessi”; elogia “l’esperienza di solidarietà nazionale” del 1976 – un’esperienza che Napolitano non smette di sperare si ripeta nel presente – rimarca la “tensione morale” di Gerardo Chiaromonte che ha saputo trasmettere “visioni e valori irrinunciabili”. Inoltre, riferendosi indirettamente agli sterili movimenti 2.0 neofiti delle istituzioni, approdati in Parlamento all’ultimo minuto, aggiunge: “Certe campagne, che si vorrebbero moralizzatrici, in realtà si rivelano nel loro fanatismo negatrici e distruttive della politica”.

Le suddette campagne si rivelano, nel contempo, negatrici di un pluralismo fondato sulla libertà, sul progresso e sulla crescita civile della ‘società degli individui’, in cui ciò che conta non è conquistare il tapiro di leader ma lavorare per costruire l’interesse generale, al servizio del Paese, attraverso un dialogo costruttivo e non occupando il Parlamento o, in generale, attaccando le istituzioni. Tra i beni comuni – tra cui anche le istituzioni – il Paese è il più prezioso e anche il più delicato, perché in ballo c’è la vita delle persone e la rispettabilità delle istituzioni, un fattore, quest’ultimo, non trascurabile, che determina la credibilità in campo europeo ed internazionale e garantisce il rispetto e l’incremento della libertà all’interno del Paese. Un Paese non può essere scisso dal proprio Stato e dalle proprie istituzioni – benché sia uno Stato minimo e di diritto – e un ‘pluralismo malato’ è il primo indicatore di una ‘democrazia liberale malata’. In particolare, in un’ottica liberale un Paese si rispecchia in uno Stato di diritto in cui l’unico leader è l’imperio della legge e in cui il pluralismo rappresenta una ‘sana’ regola di convivenza civile e politica.

© Rivoluzione Liberale

 

 

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