Pochi giorni fa, a Seul, le fotografie del leader della Corea del Nord, Kim Jong-un, venivano bruciate. L’affronto risvegliava l’orgoglio nordcoreano e Pyongyang passava da comunicati ufficiali a minacce “senza alcun avvertimento” contro Seul. Prima era solo la presenza statunitense il motivo per avercela con il Sud, oggi si aggiunge anche la sacra difesa del capo nordcoreano.
La via diplomatica sembrava, fino al 17 aprile, sbarrata; nella notte invece, come quando era stata dichiarata guerra agli Stati Uniti, Pyongyang ha aperto alle trattative. Il portavoce del Ministero degli Esteri sudcoreano aveva dichiarato l’impossibilità di trattare con un paese che lancia minacce nucleari e fa paura al mondo intero. Niente trattative, facevano intendere dal Sud. Ci si appellava alla comunità internazionale quasi fosse un deus ex machina per punire la prepotenza del Nord, quando l’ONU aveva già inflitto numerose sanzioni al Paese molto prima che si profilasse l’eventualità di una guerra nucleare.
Eppure, a sentir parlare oltreoceano, le trattative sarebbero necessarie; lo stesso Jhon Kerry, Segretario di Stato, ha espresso questa necessità. Sono i più pessimisti a porsi fuori dal coro, coloro che non sottovalutano questa crisi e fanno dichiarazioni dal sapore amaro e realista. L’agenzia del Pentagono sospetta che Pyongyang abbia effettivamente capacità nucleari e a Washington si discute di quale possa essere il miglior approccio da adottare con il regime di Kim Jong-un.
Stati Uniti e Seul si dicono pronti a iniziare un dialogo ma Pyongyang ha posto condizioni molto stringenti: l’annullamento delle sanzioni ONU e scuse ufficiali per tutti gli atti denigratori che il Sud ha compiuto nei giorni passati. Di fronte a queste premesse,immediata è stata la risposta di Seul: il portavoce del ministero degli Esteri, Cho Tai-Young, ha dichiarato “incomprensibili” i dettami del regime comunista e “assurda” l’uscita di Pyongyang.
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