* Il liberismo, ha fallito, come il marxismo. Non è un caso. Ambedue le ideologie politico-economiche si presentano come portatrici di un insieme di verità universali capaci di risolvere sempre e dovunque il problema che ritengono di aver identificato come sciagura per le comunità umane. Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la ineguale distribuzione della ricchezza e il capitalismo di rapina sono i mali assoluti per gli uni; l’incapacità di assicurare sviluppo economico, l’inefficienza, la penalizzazione del merito e della libertà di impresa sono i mali assoluti per gli altri.
Marxismo e liberismo sono accomunati dalla fede nelle proprie ricette, al punto che ritengono accettabili regimi politici illiberali e protezione delle elite al potere in nome del traguardo finale. Abbiamo visto com’è andata a finire per il marxismo. Ora è il liberismo a traballare, almeno concettualmente, visto che non può essere direttamente identificato con i regimi politici che più o meno lo adottano.
Il liberismo si è presentato al mondo intero come la soluzione facile e automatica al problema della creazione di ricchezza, ha indubbiamente esercitato una spinta propulsiva importante, specialmente in paesi a economia dormiente. Però, come tutte le dottrine universali, funziona meglio in alcuni paesi che in altri. Per di più non ha retto alla prova del tempo, e ha rivelato gravi falle con gli effetti della deregulation. La crisi finanziaria ha assunto dimensioni globali proprio per un problema di sottovalutazione dei rischi della deregulation.
I risultati della deregulation sono sotto gli occhi di tutti. Il liberismo ha convinto molti – troppi – governanti che fosse possibile una soluzione semplice per problemi complessi. La stessa gigantesca ingenuità del marxismo. In realtà, proprio come il marxismo è degenerato nelle dittature e non ha affatto assicurato né lo sviluppo economico né una equa distribuzione della ricchezza, così il liberismo è degenerato in una serie di inconvenienti che sanno molto di preludi di anarco-capitalismo.
Soprattutto negli USA, protagonisti della grande bolla della New Economy all’inizio del secolo, poi produttori ed esportatori della gigantesca crisi finanziaria del 2007 e della crisi industriale e politica globale che ne è seguita.
Non è questa la sede per approfondire un tema così complesso, che richiederebbe di ricostruire la storia economica del sistema industriale occidentale degli ultimi decenni, con i fenomeni della delocalizzazione speculativa, il ruolo dei fondi di private equity, la creazione di grandi concentrazioni di ricchezza che non viene investita in imprese ma affidata a gestioni speculative.
Il problema che si pone oggi ai liberali è che il liberismo così come inteso dove applicato (Usa e UK) ha portato a un disastro sociale e a economie fragili. Questo per due fenomeni fino a poco fa imprevedibili: speculazione finanziaria che ha reso le – poche – regole obsolete e spremitura e vendita di aziende eccellenti con creazione di grandi ricchezze che non vengono reinvestite ma affidate alle gestioni finanziarie, quindi redditi da impresa che si trasformano in rendite. Contemporaneamente si creano masse di disoccupati e la tecnologia si trasferisce nei paesi emergenti. I redditi medi crollano, parte la crisi subprime e tutto quello che è seguito.
I liberisti, vedi Zingales, Giannino, etc. continuano a dire che basta ridurre le tasse, la spesa pubblica e le pensioni per rimettere in moto l’economia. Falso, questi provvedimenti non creano investimenti ma solo effetto temporaneo sui consumi e le importazioni che aumentano, mentre la domanda si riduce per gli inevitabili fallimenti di aziende e il costo della previdenza integrativa per chi se la può permettere.
Ci limitiamo a registrare il risultato finale: un colossale impoverimento e una colossale creazione di ingiustizie, prima negli USA, poi in Europa. Le conseguenze sociali sono orribili perché colpiscono solo alcuni che non hanno alcuna colpa e vanificano la ripresa. Intanto un paese comunista diviene la più potente economia industriale del mondo e la sinistra italiana non ha ancora capito cosa stia succedendo. Soprattutto, come tutte le dottrine universali, di nuovo dobbiamo registrare che il liberismo funziona meglio in alcuni paesi che in altri. In Italia sembra che non ci sia il miglior clima per aspettarsi che la “mano invisibile” operi al meglio.
Il punto che ora dobbiamo affrontare è quale possa essere la posizione di un liberale nei confronti del liberismo.
Il tema da porre all’attenzione dei liberali, fra i quali, come è normale, abbondano i sostenitori del liberismo, è: come porsi di fronte al fatto che i liberisti che abbiamo visto in azione ci hanno portato a questo disastro economico e all’egemonia cinese. Mentre i loro seguaci continuano ancora oggi a invocare soluzioni semplici –meno tasse– per problemi complessi.
Per un liberale è inaccettabile la superficialità fideistica di costoro.
Il liberale non può che prendere atto della complessità e agire pragmaticamente.
In Italia sembra che non ci sia il miglior clima per aspettarsi che la “mano invisibile” operi al meglio. L’Italia ha un sistema industriale che muore di asfissia e debolezza dovuta allo sciagurato “piccolobellismo” di cui si è alimentata la retorica giornalistica e politica. Non si tratta di rilegittimare surrettiziamente aiuti di stato, ma di tracciare una strada e percorrerla per salvare il salvabile, cominciando dalla legislazione che riguarda le aziende in crisi.
Purtroppo i liberisti credono che basti eliminare una serie di ostacoli, poi tutto si aggiusta. Sorretti da questa fede, non analizzano il sistema industriale, per esempio le dimensioni delle aziende del tanto decantato capitalismo familiare. Sono troppo piccole, in Italia la dimensione media è molto bassa. Ne risente la produttività. Poi è notorio che gli Italiani parlano poco le lingue straniere, soprattutto il business language. Quindi hanno difficoltà a gestire rapporti commerciali, relazioni istituzionali, negoziati complessi.
Lo smantellamento dell’industria di stato ha spezzettato i grandi gruppi chimici, l’acciaio, le telecomunicazioni, altri segmenti strategici. I privati italiani sono bravi con la moda, l’alimentare, la meccanica, ma abbonda il culto del “piccolo è bello”. E notoriamente, mentre nei paesi anglosassoni per un capo azienda è un dovere farsi assistere da consulenti strategici e di organizzazione, il magico individualismo italiano porta a considerare un disonore farsi aiutare da esperti. L’imprenditore italiano sa tutto e ha sempre ragione. Il risultato finale sono aziende che difficilmente durano a lungo, resistono alle congiunture difficili e crescono sui mercati internazionali. Ridurre il costo del lavoro non può cambiare le cose se non marginalmente. La partita si gioca altrove, ai piani dei dirigenti, non in fabbrica o negli uffici.
Quindi a scuola di management e nei meccanismi di controllo e rinnovo delle diverse gerontocrazie ancora al potere. Altro che tasse, un comodo alibi per troppi.
© Rivoluzione Liberale
*Trattasi di una serie di articoli che verranno pubblicati il martedì ed il sabato e che complessivamente espongono una analisi dal punto di vista liberale, proponendo le relative soluzioni.
I precedenti articoli: Le tre Italie: la nostra società è ancora meno liberale; L’aggravamento autoinflitto dai governi dei professori; Le tre Italie: i nuovi poveri delle città; Lo svantaggio competitivo nazionale nasce dalla congestione; Le tre Italie: con la crisi si ropme l’equilibrio; Le tre Italie: Settore amministrativo pubblico e i monopoli senza controllo; Le tre Italie: La crisi e le due Italie che diventano tre; Le tre Italie: Il settore produttivo prima della crisi

Salve,
condivido in gran parte l’analisi di cui sopra.
Per un Liberale questo articolo riporta alla mente le discuossioni tra Croce ed Einaudi (fatte le dovute differenze temporali).
Due soli appunti:
– La deregulation e la finanza non hanno agito per grazia ricevuta. E’ stata la politica a volere questo. E’ stata la Politica a far in modo che ogni singolo centesimo potesse essere usato a leva. (A livello globale)
– E’ vero che le Banche e la finanza hanno speculato sulle amministrazioni pubbliche. Ma la vera domanda e’:
Il compito degli amministratori e’ quello di amministrare e non contrarre debiti o stipulare DERIVATI. Perche’ Politici chiamati ad amministrare hanno stipulato contratti Derivati? Non sara’ forse per foraggiare operazioni clientelari? Siamo sicura che non avevano compreso i rischi e magari hanno deciso di spostare il costo della loro popolarita’ (clientelare) sulle generazioni future? Oltre ad accusare giustamente banche ed intermediare, classe politica, giornalisti ed opinione pubblica tutta, non dovrebbero porsi in modo duro contro chi ha contratto questi derivati, favorendo la speculazione finanziaria? (dentro i nostri confini)
Alla fin fine, le banche hanno fatto il loro mestiere (non sembre in modo corretto), ma di sicuro gli amministratori hanno fatto qualcosa per i quali non erano stati chiamati.
Grazie