Da semplice Movimento di contestazione ecologista, le manifestazioni di Istanbul hanno frantumato un’icona. Quella di un Regime che da 10 anni, sotto il rigido controllo di Erdogan, ha modernizzato la Turchia, dato vigore alla sua economia di Stato emergente, fornito un modello di Governo moderato di ispirazione islamista spesso citato durante la Primavera Araba. La violenza della repressione da parte della polizia al parco Taksim fa cadere la maschera sulla deriva autocratica del Primo Ministro Erdogan: adozione di leggi anti-laicismo, repressione dei media, spari sulla folla, volontà di riformare con una vera forzatura la Costituzione per farsi eleggere Presidente della Repubblica nel 2014. Dopo dieci anni di segnali incoraggianti per la Democrazia turca, i principi di Erdogan sembrano aver subito un mutamento. O forse si sono semplicemente rivelati.

Abbiamo tutti negli occhi l’immagine della giovane donna in rosso che resiste ai potenti getti degli idranti della polizia. Immagine che è diventata un simbolo di questa rivolta. La Turchia, vero modello per la transizione democratica nei Paesi arabi, ha ora, anche lei, il “suo” Movimento di protesta. Il Movimento è partito dalla lotta a Piazza Taksim, contro la costruzione di un grande centro commerciale e di una Moschea al posto di uno degli ultimi polmoni verdi della grande metropoli turca. Un po’ come a Mosca lo scorso anno, dove una battaglia dei verdi si è trasformata in contestazione politica mossa al Regime di Putin, la crociata degli ecologisti di Istanbul ha aperto il vaso di Pandora. Manifestazioni a catena e propagazione del Movimento in altre città turche. Gli 800 alberi condannati alla distruzione dal terrificante progetto urbanistico, sono diventati nel giro di qualche ora il nemico più pernicioso per Recep Tayyip Erdogan da quando è arrivato al potere.

Agendo con tale violenza contro i manifestanti, il Primo Ministro ha scatenato la mobilitazione di un fronte laico che sopporta sempre meno la deriva autoritaria del regime e l’adozione, in progressivo aumento, di misure anti-democratiche come la limitazione di consumo di alcolici, l’infiltrazioni ad ogni livello della macchina statale da parte del Partito AKP e la subdola introduzione dei valori morali dell’Islam nei procedimenti giuridici. Programmando, su misura, una riforma presidenzialista della Costituzione in vista delle elezioni del 2014, Erdogan ha sempre più difficoltà a nascondere la sua tempra di sovrano assoluto. Piazza Taksim (strana assonanza con la tristemente famosa Piazza Tahrir)concentra così tutta la scontentezza della società turca. Il boom economico degli ultimi dieci anni conosce un repentino rallentamento e possiamo stare certi che se il rallentamento si accentua, non è solo la macchina produttiva (bloccata dalla crisi in Europa, sua prima cliente) ad incepparsi, ma il fenomeno della corruzione, passato sotto silenzio nel periodo d’oro, emergerebbe con grande forza distruttiva. Inoltre, la guerra in Siria e il ruolo della Turchia dove più di 400mila rifugiati siriani sono venuti  a riparare e da dove partono numerosi combattenti (non tutti con una passato proprio limpido) schierati dalla parte degli oppositori di Assad, sono fonte di grande instabilità. Si è molto parlato, negli ultimi anni, della reviviscenza ottomana del potere turco, del suo potenziale nell’influenzare tutto il Mondo Arabo attraverso le sue fiction di grande successo, del suo ruolo di pilastro della NATO nella Regione e di stabilizzatore di un Medioriente in piena mutazione, di una potenza economica alle porte dell’Europa. Tutte queste definizioni sembrano non essere più calzanti vista l’evoluzione del contesto regionale e interno che è andato delineandosi da due anni a questa parte. Il circolo virtuoso che aveva suscitato la prospettiva di adesione all’Unione Europea sembra aver perso il suo fascino visto l’ostruzionismo che viene dagli Stati membri, Francia in testa. La destabilizzazione della Regione, dallo scoppio della guerra civile in Siria, tarpa le ali della strategia pacificatrice di Ankara. L’adozione di misure che vanno contro il laicismo al quale tende gran parte della Turchia “europea” e i segni di cedimento della crescita insidiano lo scenario interno.

L’opposizione politica ha approfittato di questo Movimento di rivolta per  schierarsi apertamente con i manifestanti. Laici e liberali chiedono più Democrazia e libertà. Possiamo parlare di “Primavera turca”? L’analogia con la Primavera araba non regge. In Turchia abbiamo un Governo  che è stato democraticamente eletto e la situazione economica del Paese non è paragonabile a quella dell’Egitto o della Tunisia. La strada accusa il Primo Ministro di voler “islamizzare” la società turca, la richiesta dei Movimenti che hanno acceso la Primavera araba andavano in senso opposto. In un primo tempo, di fronte a questo movimento di massa, Erdogan e i suoi uomini hanno scelto la fermezza. Ma la reazione spropositata della polizia ha avuto ripercussioni in seno al potere stesso. Il Primo Ministro ha dovuto ammettere che le forze dell’ordine avevano agito, in alcuni casi, in modo “estremo” e ha chiesto loro di ritirarsi da Piazza Taksim. I Manifestanti hanno accolto questa marcia in dietro come una vittoria, confortati dalle parole del Presidente turco Abdullah Gul che, poco prima del ritiro aveva detto: “In una Democrazia, le reazioni devono essere espresse (…) con buon senso, calma e, da parte loro, i dirigenti (del Paese) devono sforzarsi al massimo per cogliere con grande attenzione le diverse opinioni e preoccupazioni”. La road map per Recep Tayyip Erdogan è scritta sempre che non vuoglia ipotecare il suo sogno di presidenza conquistata “democraticamente”.

L’ondata di rivolte in Turchia è probabilmente alimentata da quello che accade nel Mondo arabo-musulmano,  frutto del prolungamento del conflitto Siriano. Come separare la Turchia dalle sorti del suo ex dominio ottomano, di cui la Siria (la Grande Siria) era il fiore all’occhiello? La questione siriana non è da sottovalutare in questa storia nata da un “banale” evento di guerriglia urbana , ma che ha radici profonde. La Siria, i suoi profughi, i ribelli sono presenze tangibili nei territori frontalieri della Turchia e questo non può non influenzare la politica interna. Così come non va sottovalutata la decisione di un altro Stato come il Libano, coinvolto, malgrado lui, nella sanguinaria guerra civile siriana, che, ha giudicato “prudente” rimandare le sue elezioni politiche, previste per metà Giugno, a data da destinarsi. La ragione principale è stata riposta nel fallimento di sette mesi di negoziati voluti per rendere la legge elettorale attuale più equa  per i cristiani. In realtà all’interno del Paese si stanno delineando grandi problemi per la questione siriana che ha incrinato ulteriormente i rapporti già minati da dissidi storici tra pro-occidentali e partigiani dell’Iran e della Siria. La Libia è seduta sul vulcano siriano. Piccolo Stato di 4 milioni di abitanti, ha accolto, secondo l’Alto Commissariato per i Rifugiati delle NU, 469mila siriani. Se a questi si aggiungono gli emigrati “regolari” e le famiglie agiate radicate nel Paese, le autorità di Beirut valutano che nel Paese siano presenti un milione di siriani, ossia un quarto della popolazione. Una situazione carica di conseguenze per l’equilibrio di questo fragile territorio.

Il perentorio affermarsi dell’islamismo fondamentalista rimette in questione tutte le alleanze e la Turchia si trova ad un bivio: quale strada deciderà di prendere? Come la Turchia, anche il Libano dovrà prendere delle decisioni che non si ripercuoteranno solo sulla sua politica interna, ma potrebbero avere conseguenze in tutta questa martoriata Regione.

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