La cosa che più incuriosisce della Spagna è il suo candore, perché qui il Sessantotto non c’è mai stato, e gli anni del boom, quelli ye-ye, sono ora, o comunque sono finiti da poco, per colpa della crisi che sta galoppando ben oltre quella “disoccupazione sutturale” spagnola di cui parlava – con un certo paternalismo verso i suoi connazionali – l’ex premier socialista Felipe Gonzàlez. La fine dei cupi anni del bigottismo franchista – che tanta memorialistica malinconica aveva generato (basti pensare all’Albereto perduto del “romano” Rafael Alberti) – non ha bagnato la terra con il sangue dei vinti, ma è sbrodolata nella sbornia della movida degli anni ottanta, quella di Pedro Almodovar e Miguel Bosè. Non proprio due intellettuali.
La società spagnola oggi appare ancora divisa in classi, che non si odiano tra loro perché ognuna ha i suoi punti di riferimento e le sue aspirazioni, e tutto quello che realmente importa, e realmente accomuna, è potersi sedere con gli amici nella terraza di tutta la vita con una birra e un pezzo di tortilla, in attesa che inizi la partita o si aprano le porte della plaza de toros. Come in un grande acquario umano, i ragazzi bene (i mitici pijos) hanno la riga da una parte, vestono maglioni color pastello e scarpe da barca, portano le ragazze a giocare a golf e nei possedimenti materni; gli altri, quelli con la maglietta a righe e il capello a mezzo collo, giocano a fare la rivoluzione occupando Puerta del Sol e passandosi di mano in mano i bicchieroni di sangria, alla faccia del divieto di botellòn; gli omosessuali, con le canottiere sgargianti e i muscoli tirati, sono gli ultimi veri machos urbani, se non fosse che portano a spasso minuscoli cagnetti; le signore più borghesi non lavorano e il pomeriggio escono a fare le commissioni con i gioielli, i capelloni, il trucco, i sorrisi; gli avvocati portano fieri le camicie azzurre coi colletti bianchi, le cravatte rosa e i mocassini con le nappette; le vecchie carampane nostalgiche lasciano la pelliccia al cameriere all’ingresso del caffè e mentre aspettano il bicchiere di Tìo Pepe commentano che il servizio non è più quello di una volta; il sabato mattina i genitori portano la coppia di bambini in giro per il quartiere, dopo averli vestiti entrambi uguali, elegantissimi e all’inglese; e la domenica, invece di fare la fila in macchina per raggiungere il nuovo centro commerciale, come da noi, si comprano le pastarelle per tutta la famiglia. A Barcellona, addirittura, si fa la fila per il pollo come in un film di Aldo Fabrizi. È questa la vera rivoluzione.
Un tempo, quando le parole ancora non soffrivano di anoressia, le rivoluzioni erano una cosa seria. La citata occupazione di Puerta del Sol da parte degli ormai famosi “indignados”, con il loro obiettivo di delegittimare le elezioni che poi hanno visto il crollo fragoroso di Zapatero, piuttosto che evocare la primavera araba di Plaza Tahrir (come hanno detto molti illustri inviati), avrebbe dovuto far pensare – al massimo – a un picnic urbano, a una coda prima dei saldi, a una sagra di paese. Di fronte a tanta demagogia, uno come Pasolini avrebbe preso le difese degli altri, di quelli che, rimasti senza un euro e senza una casa, piuttosto che dormire su un marciapiede per il gusto del bel gesto hanno voluto dare un segnale di rottura esercitando il loro legittimo diritto al voto. Peccato che in Spagna uno come Pasolini non sarebbe servito a niente, non sarebbe mai diventato per alcuni un maestro di pensiero, probabilmente non sarebbe neanche morto.
