Piazza Tharir in fiamme. Il Cairo in una nuvola di fumo e bandiere patriottiche. Ricordi vivi in tutti noi quando l’Egitto e il Nord Africa erano protagonisti della Primavera Araba. Oggi, lo stesso Paese sembra tornato al passato ma qualcosa è cambiato.
Le parti in gioco sono diverse: per le strade non ci sono più i civili e le donne a rivendicare i propri diritti ma l’esercito egiziano rimasto nell’ombra fino a poco tempo fa. Dall’altra parte, c’è il nemico, se prima era il regime di Mubarak oggi è il governo di Mohamed Morsi.
Eletto democraticamente dal popolo egiziano (con il 51% alle elezioni presidenziali del 2012), il leader del partito di Libertà e Giustizia (Fratelli Musulmani) si era presentato come il salvatore della patria: filoccidentale quanto basta per avere gli aiuti del Fondo Monetario Internazionale, protettore cauto della Shar’ia islamica
Una maggioranza inusuale quella che lo sosteneva, costituita anche dalle forze militari: le stesse che oggi gli impongono un ultimatum di 48 ore per risolvere la crisi egiziana. La Casa Bianca, quando sono stati resi noti i risultati elettorali l 2012, definì la sua vittoria come “una pietra miliare verso la democrazia.” Oggi il castello di carte è ufficialmente crollato e il primo governo democratico dell’Egitto sembra avere le ore contate. A ben poco servono le telefonate notturne e rassicuranti di Washington a Morsi, nel cuore della notte.
Per ora, le intenzioni dell’esercito non sono ancora chiare ma è sicuro che verranno appoggiate dall’opposizione. Intanto il Consiglio Supremo delle Forze armate egiziane (Scaf) usa Facebook per far sapere che “è pronto a morire per difendere il popolo dell’Egitto contro i terroristi, i radicali o i pazzi”. Mohamed Morsi non ha mancato di ricalcare questa affermazione con il risultato che lui, invece, è pronto a morire per la democrazia.
In conclusione l’Egitto è un paese di “pronti a morire”. Gli ultimi scontri contano 14 morti e 200 feriti. Quanto costerà alla popolazione una seconda primavera araba?
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