Dopo l’infelice spedizione di Toscana, durante il viaggio di ritorno di Federico III in Sicilia, una violentissima tempesta costrinse la flotta siciliana ed il Re a sostare per un mese a Cagliari, in Sardegna, e da li Federico scrisse la celebre lettera al fratello Giacomo II d’Aragona nella quale diceva che avrebbe difeso la libertà della Sicilia anche a costo della sua stessa vita.

Il sovrano riuscì ad attraccare a Trapani l’11 novembre del 1313. Federico cominciò a prepararsi per ricevere la controffensiva angioina che non sarebbe certo tardata ad arrivare e nel frattempo, nel gennaio del 1314, cercava di giustificarsi con Clemente V dicendo di avere ubbidito agli ordini del legittimo imperatore, ovviamente questo non bastò a fare tornare il Papa dalla sua parte e nemmeno a togliergli la scomunica. Alla fine del maggio del 1314 Giacomo II propose l’ennesima mediazione proponendo di tornare alle condizioni della pace di Caltabellotta, ma il Parlamento siciliano rifiutò questa proposta mentre era riunito a Messina. Il 9 agosto del 1314 Federico III, da Enna, comunicò ufficialmente, urbi et orbi, di lasciare il titolo di Re di Trinacria (come dai patti di Caltabellotta, ma non che non aveva mai veramente utilizzato) e di intitolarsi nuovamente Re di Sicilia, proprio mentre, quello stesso giorno, l’armata angioina sbarcava sulla costa nord-occidentale fra Carini e Castellammare del Golfo.

Come suo nonno Carlo I nel 1282, Roberto I d’Angiò sperava di invadere la Sicilia con una grossa armata concentrata in un singolo sbarco per sbaragliare il nemico e metterlo in ginocchio. Il giorno successivo cadde nelle mani degli angioini Castellammare del Golfo ed il 16 agosto Trapani fu isolata via terra e via mare in un mortale assedio. Come Messina tanti anni prima, anche Trapani si difese eroicamente con alla guida l’eroico Simone Valguarnera.            Stavolta però la Sicilia non era più un insieme disorganizzato di comuni insorti ma uno stato efficiente guidato da un sovrano risoluto. Federico III non si fece prendere dal panico e mobilitò la flotta e l’esercito; tutti i comuni, senza lamentela alcuna, profusero denaro ed uomini per difendere la libertà della patria siciliana. Il 30 ottobre, mentre a Trapani si era sotto assedio da oltre due mesi, l’intero esercito siciliano e flotta furono passati in rassegna da Federico III a Palermo, nel piano di S. Giorgio (alla fine dell’attuale via Cavour verso il mare). Tuttavia la flotta non riuscì mai a raggiungere Trapani per attaccare gli assedianti a causa di maltempo e tempeste. Si giunse a dicembre con gli angioini che ancora non avevano concluso nulla dopo quattro mesi di assedio alla città del sale ed allora la moglie di Roberto I, sorella di Federico, cercò una mediazione. La tregua fu firmata il 17 dicembre del 1314 e sarebbe stata valida fino al primo marzo del 1316.

In base alla tregua l’assedio di Trapani veniva tolto e le parti avrebbero occupato le posizioni sin li raggiunte. Il 30 dicembre Roberto I d’Angiò lasciò la Sicilia per fare ritorno a Napoli. Il 1315 trascorse senza particolari avvenimenti e fu caratterizzato dall’estrema povertà personale del sovrano che aveva investito quasi tutte le sue ricchezze per la guerra e per aiutare economicamente il fratello Giacomo che chiedeva dei prestiti. Scaduta la tregua, Federico III diede ordine di riconquistare Castellammare del Golfo che tornò in mani siciliane il 14 aprile del 1316. Nel frattempo Roberto d’Angiò si era convinto, visti i propri insuccessi e quelli del nonno, che la strategia migliore era quella di logorare i siciliani con piccoli attacchi improvvisi, incursioni piratesche e devastazioni delle campagne illustrando la sua strategia di “logoramento” con la metafora della goccia che scavava la pietra.

L’8 agosto del 1316, 70 galee angioine si presentarono davanti al porto di Marsala tentanto di prenderla senza riuscirvi. Frustrati, i millecinquecento militi si abbandonarono alla devastazione delle campagne intorno a Salemi, importante centro agricolo e strategico della zona. Finito il saccheggio le truppe si reimbarcarono e sbarcarono a Palermo continuando le azioni piratesche per poi reimbarcarsi ancora ed usare lo stesso metodo a Messina.

Il due dicembre, nel Duomo di Palermo, si riunì un Parlamento per valutare lo stato di avanzamento della guerra. L’assise confermò piena fiducia a Federico III e si propose di armare altre navi che, tuttavia, non furono necessarie per l’intero 1317. Nel frattempo il primogenito di Federico, Pietro, veniva lasciato a Palermo alle cure ed all’educazione di Simone Valguarnera e fu nominato Vicario Generale del Regno. Anche in questo atto traspariva in Federico la voglia di continuità dinastica in aperta violazione dei patti di Caltabellotta. Nel maggio del 1317 la flotta angioina compì un altra serie di azioni di “guerra lampo” fatte di sbarchi e devastazioni distruggendo molte tonnare e campagne sulla costa tirrenica.

Da circa una anno, tuttavia, regnava un nuovo Papa, Giovanni XXII, che cercò di mediare la pace fra gli Angiò e Federico III che ricevette un’imponente delegazione papale a Messina mentre stava armando la flotta. Il Papa proponeva lo Stretto di Messina come naturale confine tra i due regni (ammettendo così implicitamente che il Regno di Sicilia fosse ormai un’entità indipendente ed a sé stante rispetto a Napoli). Le trattative con Federico portarono ad una tregua che sarebbe dovuta durare fino al Natale del 1320; nel frattempo si sarebbe lavorato alla pace definitiva.

Come pegno di buona volontà, Federico III avrebbe dovuto consegnare al Papa tutte le terre conquistate in Calabria che li avrebbe amministrate temporaneamente per poi consegnarle a chi ne avrebbe avuto diritto in base al trattato di pace che sarebbe stato partorito dalle trattative. Federico, anche se a malincuore, accettò. Gli accordi però, dovevano essere ratificati dal Parlamento come previsto dalle Costituzioni concesse da Federico nel 1296.

Il Parlamento si riunì a Mazara del Vallo il 24 marzo del 1318; oltre alla ratifica degli accordi dell’anno precedente bisognava anche decidersi su come impostare le trattative di pace che sarebbero iniziate ad Avignone (in quel tempo residenza del papa durante il periodo della cosiddetta “cattività francese”) il primo di maggio di quello stesso anno.


Il Parlamento chiese al sovrano di non partire per Avignone memore della lunga e tormentata assenza di Federico in occasione della sfortunata spedizione dei tempi di Enrico VII. Federico rispose che era lusingato dall’affetto che gli veniva mostrato ma la sua presenza alle trattative avrebbe sicuramente migliorato le cose; il Parlamento non volle sentirne e Federico decise di accontentarlo mandando alle trattative Francesco di Antiochia e Francesco Ventimiglia.

I due ambasciatori dimorarono ad Avignone fino ad agosto inoltrato nell’attesa che si presentasse Roberto d’Angiò con la sua delegazione per iniziare i lavori. In realtà gli Angioini non si presentarono perché a Roberto, una volta che i Siciliani se ne erano andati dalla Calabria, non importava molto di concludere una pace. Con il permesso del Papa i due rientrarono in Sicilia nel settembre del 1318. Fu certamente singolare il richiamo che Giovanni XXII, nel suo perfetto stile, fece a Roberto d’Angiò chiedendogli se egli avesse accumulato tanti meriti presso il Padre Eterno da pensare che quest’ultimo sbrigasse i suoi affari in sua assenza.

Ma fu solo un’amorevole tirata di orecchie; il Papa, che sarà ricordato come uno dei peggiori che l’umanità abbia conosciuto, era di fatto un sostenitore degli Angiò e dei Francesi in generale e per dimostrarlo aveva prontamente lasciato nelle mani di Roberto I i domini calabresi consegnatigli come pegno di pace dai Siciliani, violando apertamente le condizioni della tregua in atto.  

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