Il Guggenheim di New York ospita, fino al prossimo 24 aprile, Kandinsky in Paris, 1934-1944. La selezione proviene direttamente dalla ricca collezione dello stesso museo newyorkese, data da oltre 150 opere regolarmente esposte nella galleria appositamente dedicata. La doppia curatela è di casa, tra Tracey Bashkoff e l’associata Megan Fontanella.
Il focus è sull’ingrato e faticoso, per quanto particolarmente prolifico e significativo, periodo francese del maestro russo. I suoi ultimi anni di vita sono difatti costellati dai problemi di salute, dal sempre più difficile reperimento dei materiali di lavoro e di fonti di sostentamento, dal lungamente ricercato e tuttavia mancato riconoscimento generale e da parte della critica in Francia, dalla pressione psicologica di vecchio artista “degenerato” secondo i Soviet e i Nazisti.
Emigra, dopo la definitiva chiusura della Bauhaus di Dessau alla fine del settembre 1932, nel sobborgo parigino di Neuilly-sur-Seine. È questo un Kandinsky (1866-1944) stranamente isolato per forze di causa maggiore e per proprio volere, ad eccezione dei pochi contatti con i vecchi amici russi e i coniugi Delaunay. Lo contorna un alone di solitudine obbligata e volontaria in parvenza. Si presenta un artista affranto e triste, a cui la vita, con la moglie Nina Andreevskaya, da intellettuale ritirato non si confà e non attrae minimamente.
Egli continua imperterrito la sua ricerca e cambia radicalmente il suo vocabolario formale. Il nuovo Vassily rappresenta estrose forme biomorfe e trae la sua ispirazione da testi di biologia e dalle immagini delle enciclopedie scientifiche. Microrganismi pulsanti, come vermi, amebe, embrioni e invertebrati marini fluttuano nell’aria, o meglio: nuotano sotto forma di plancton in una sorta di liquido amniotico, di brodo primordiale. Non mancano nemmeno elementi della flora. Il tutto si armonizza con la parte più interna dell’anello che si avvolge a spirale dello spazio espositivo, dedicata per consuetudine alle mostre momentanee, in cui di consueto non risiedono le sue opere.
Dai colori primari egli approda all’uso di tinte pastello, dunque decisamente più leggere e soffuse, ossia il rosa, il viola, il turchese e l’oro, in ricordo della tradizione russa permasa nonostante le continue peregrinazioni del pittore. Sperimenta maggiormente con i materiali, per esempio la sabbia in miscela con i pigmenti.
Lo studio che vede il colore e la composizione come protagonisti caratterizza anche ora la sua carriera artistica, come del resto il continuo parallelo arte-natura. Le sue teorie mature sostengono che un’anima nascosta esiste in tutte le cose; il nostro occhio interno ne penetra il guscio duro, la forma esterna, va in profondità degli oggetti e ci lascia sentire con tutti i nostri sensi il loro pulsare interno.
Per lui si delineano chiaramente le leggi del mondo cosmico e un nuovo mondo dell’arte giustapposto a quello della natura. Il nuovo mondo dell’arte è reale e concreto, quello che dà sostanza alla sua arte comunemente definita “astratta”, ma da lui semplicemente “concreta”. Egli opera coscientemente conferendo ai suoi lavori pregnanza di significato e vitalità.
Il 1937 segna la fine del rapporto con Solomon Guggenheim e la baronessa Hilla von Rebay, sua consigliera e amante: è questo un arduo colpo per l’artista. L’occupazione tedesca limita poi la sua capacità espressiva, tra la penuria di colori e pennelli, l’assenza del risaldamento nello studio, adatto alla realizzazione di grandi opere. Kandinsky lavora nella sala da pranzo e utilizza pannelli di legno, cartoni e tele di piccolo formato, similarmente ai primi anni, passando alla tecnica del gouache più facile da vendere.
Logorato, muore nel dicembre 1944 a 78 anni, colpito nel maggio dello stesso anno dall’arteriosclerosi che tuttavia non ferma la sua mano dal dipingere fino al mese di luglio. Tra isolamento materiale e spirituale dalla capitale francese e dai suoi artisti del movimento astratto parigino, in cui non si riconosce, e surrealista, dalla guerra che non accetta di raffigurare nei suoi dipinti, scrive nel maggio 1940 all’amico in Svizzera Hermann Rupf: “Personalmente sono felice di essere a Parigi e di lavorare con la porta chiusa del mio studio”.
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