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Appena due anni dopo la sua nascita, avvenuta dopo decenni di guerra civile, Il Sud Sudan ripiomberà nel caos?  Cinquecento persone sono già morte, 15mila sono state fatte evacuare e il resto degli abitanti della capitale Juba sono barricate in casa, dalla scorsa Domenica, quando sono scoppiati violenti combattimenti tra fazioni rivali dell’esercito.

Il Presidente Salva Kiir è determinato. Ha sventato un tentativo di Colpo di Stato fomentato dal suo rivale ed ex vice-Presidente Riek Machar, ora in fuga. Anche se quest’ultimo nega l’evidenza. “Ciò che è avvenuto a Juba è un malinteso tra i membri della guardia presidenziale”, ha assicurato sul sito internet Sudan Tribune, accusando Kiir di non essere più un “il Presidente legittimo”. Pressato dall’ONU quest’ultimo si dichiara pronto a discutere con il suo rivale. La crisi in realtà risale alla scorsa estate. In Luglio, il Capo di Stato licenzia il suo vice-Presidente, così come i 29 Ministri del Governo e i loro assistenti. Anche se “legale”, questa manovra è stata vissuta come una deriva autoritaria del Presidente nell’ottica delle elezioni del 2015, che vuole assolutamente vincere. Salva Kiir come Riek Machar vogliono eliminarsi mutualmente dalla corsa. La rivalità tra questi due pachidermi della politica sud-sudanese non nasce ieri. Nel 1991, Riek Machar tenta di rovesciare la direzione dell’Esercito popolare di liberazione del Sudan (SPLA) in mano al capo storico John Garang (morto nel 2005). Salva Kiir è all’epoca uno dei quadri. Il conflitto assume rapidamente una dimensione etnica e vede la comunità Nuer, quella di Riek Machar, aggredire l’etnia Dinka, quella di Garang e Kiir. Nel 1991 a Bor, i ribelli di maggioranza Nuer massacrano 2000 civili Dinka. Riek Machar si è rivelato incapace di controllare le sue truppe e ha devastato l’intero Paese per una questione di potere personale. Ma la SPLA è un avversario duro da abbattere per Machar che, indebolito, arriverà ad allearsi con gli uomini del nemico di sempre, il regime sudanese di Omar el Bechir, opposto all’indipendenza del Sud. In vano. Il ribelle rientra nei ranghi. Sorprendentemente, viene reintegrato nella SPLA all’inizio del 2000, grazie all’intervento di un certo Salva Kiir! Al termine degli accordi di Pace del 2005, che hanno messo fine ad una guerra civile che opponeva il Nord al Sud, causando più di due milioni di morti, è il Movimento popolare di liberazione del Sudan (SPLM), emanazione politica dell’SPLA, a prendere il potere. Machar si vede allora nominare vice-Presidente da Kiir, dirigente del SPLM. Composto da ex combattenti della ribellione contro il Nord, il Partito – che non deve confrontarsi a nessuna opposizione credibile –  rimane minato dalle divisioni interne. Malgrado gli annunci di riforme, l’SPLM ha difficoltà a rompere con il suo passato militare, a tal punto che nello scorso Novembre, Rebecca Nyandeng, la vedova di John Garang, si è associata alle critiche di Riek Machar, che denunciava la tendenza dittatoriale del Presidente Kiir. Ma per molti osservatori queste critiche si iscrivono in una strategia elettorale. Frustrato, Riek Machar ha sempre sognato di essere Presidente. Come  molti ex combattenti, Machar e Kiir hanno una mentalità di predatori. Il loro obbiettivo è innanzitutto mettere le mani sul petrolio.

Questa manna (75% delle riserve di idrocarburi dell’ex Sudan unito) votava il Paese ad un futuro radioso. Ma dal’indipendenza del Luglio 2011, gli 11 milioni di sudanesi del Sud, che vivono (o meglio sopravvivono) di allevamento e agricoltura, non vedono nessuna luce nel loro avvenire. Il popolo vede agitarsi le elite politiche del Paese quando, sul terreno, la loro vita non è cambiata. In effetti, le strade asfaltate, le scuole o gli ospedali sono ancora rari. La società sud sudanese vive al di fuori da qualsiasi segnale di progresso, se non per il paracadutare di derrate alimentari da parte delle Nazioni Unite. Tuttavia, con un numero record di Ministri, i dirigenti non mancano. Ma il Sud Sudan è roso dal cancro della corruzione. Ognuno vuole la sua parte di torta. Alcol,prostitute e night club compresi. A chi dare la colpa? Chiaramente le ambizioni personali hanno la meglio sulla preoccupazione di costruire un Stato degno di questo nome e rispondere alle necessità della popolazione. Ricordiamo però che la popolazione sud sudanese (a maggioranza cristiana) non ha mai conosciuto l’istituzione “Stato”, essendo stata sempre diretta da capi o re locali. La società non ha sviluppato un sistema politico autonomo, indipendente dalle strutture di lignaggio parentale, ed è quindi sempre stata restia a qualsiasi potere centralizzato permanente. Né la colonizzazione britannica (1896-1955) né – tantomeno –  i decenni di guerra civile (1959-1972, 1983-2005) hanno cambiato i fattori. In questo Paese formato da una sessantina di popoli diversi, dove l’identità etnica primeggia ancora sull’identità nazionale, qualsiasi incidente può portare a nuove violenze interetniche. Anche perché i Dinka, i più rappresentati ai vertici dello Stato e dell’Esercito, vengono spesso accusati  di voler dominare le altre popolazioni. Se i combattimenti si limitano per ora ai rappresentanti Dinka e Nuer all’interno dell’esercito, le Nazioni Unite hanno lanciato l’allerta per il rischio che la polveriera scoppi in tutto il Paese, fomentando tutte le comunità.

Per far crescere lo Stato più giovane del Mondo, le nazioni Unite non hanno lesinato sui mezzi: Caschi Blu, aiuti umanitari e per lo sviluppo. Ma i fondi raramente arrivano nelle provincie del Paese. I dirigenti corrotti non parlano di Democrazia che nei consessi internazionali, il che  equivale a farsi prendere in giro. Ma la Comunità Internazionale non può fare molto di più e costruire uno Stato non è un’operazione attuabile in un giorno.

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