Difficile trovare un tema tanto antico quanto irrisolto quale quello della scelta sul sistema istituzionale italiano da adottare. Argomento annoso che potrebbe essere definito stucchevole, se non fosse per le gravi ripercussioni, in termini di diritto ed economiche, a carico del nostro Paese.
Nei dibattiti politici il tema del “Federalismo” è quasi all’ordine del giorno, spesso affiancato da più o meno legittime spinte autonomiste di varie parti dello Stivale (dal leghismo padano all’isolazionismo siciliano).
Purtroppo, la disputa ha perso il tenore culturale e ideologico dell’Italia risorgimentale, e non oscilla più tra il neoguelfismo giobertiano e il sistema confederale sognato da Carlo Cattaneo.
Oggi l’Italia vive il suo limbo, impantanata tra uno Stato centrale di eredità fascista e le spinte centrifughe locali, a causa del solito metodo politico “de noantri” di non prendere, volutamente, decisioni chiare.
Tale situazione è anche peggiorata a seguito della Legge n. 3/2001, che ha modificato il titolo V della Costituzione. Annunciata all’epoca, non a torto, come la più grande riforma costituzionale adottata in Italia dopo il 1947, gli effetti della norma sono stati evidenti, ponendo sempre di più al centro del potere legislativo, affianco allo Stato, le Regioni.
Quel che interessa, qui, è proprio questo aspetto della Legge n. 3/2001: la suddivisione della cosiddetta “potestà legislativa” tra Stato e Regioni, anche se non sono trascurabili le novità inerenti l’aspetto amministrativo.
L’art. 117 della Costituzione, come modificato nel 2001, ha determinato una sorta di “trittico” di competenze legislative, prevedendo:
- una potestà esclusiva in capo allo Stato, per quanto concerne alcune materie puntualmente elencate; per fare qualche esempio, si tratta di politica estera, difesa, sicurezza dello Stato, moneta, tutela della concorrenza, legislazione elettorale, cittadinanza, tutela dell’ambiente e dei beni culturali;
- una potestà concorrente tra Stato e Regioni: in tal caso lo Stato si limita a emanare norme di carattere generale, poi disciplinate nel dettaglio dalle Regioni stesse;
- una potestà esclusiva in capo alle Regioni e alle Province Autonome di Trento e Bolzano, relativa a tutte le materie non esplicitate dall’art. 117 riguardo alla potestà esclusiva statale e a quella concorrente.
In effetti, si potrebbe dire: fin qui tutto bene! Sono stati sostanzialmente delimitati gli steccati dell’insiemistica costituzionale, con buona pace di quanti reclamavano, da tempo, un ruolo sempre maggiore degli Enti locali nella politica decisionale del Paese.
Nella sostanza, si è verificato quanto di più caotico si potesse immaginare. La traduzione e l’applicazione della riforma costituzionale sono state talmente variegate, soggette a tante e tali interpretazioni, che lo Stato e le Regioni si accapigliano in perenne conflitto, riempiendo di ricorsi gli scranni della Corte Costituzionale. Una litigiosità senza precedenti, su ogni materia possibile, dal commercio alla sicurezza, dall’ambiente alla concorrenza.
Sono all’ordine del giorno, infatti, i ricorsi dello Stato contro le Regioni con l’accusa di non aver rispettato, nelle proprie norme, i principi e gli indirizzi nazionali. Come sono sempre all’ordine del giorno i ricorsi delle Regioni contro lo Stato per aver invaso la potestà esclusiva nelle materie attribuite alle stesse dalla Costituzione.
Scontato dire che, in questo scontro all’ultimo comma, chi ci rimette sono, oltre agli Organi interessati, i cittadini, costretti ad attendere gli esiti dei contenziosi prima di capire di che potestà legislativa perire. Per non parlare degli investitori esteri, sempre più attoniti di fronte alla minata certezza del diritto, così evanescente in Italia anche a livello istituzionale.
Ora è vero quanto scriveva uno dei padri dello Stato liberale, Charles-Louis de Secondat de Montesquieu, nel suo Lo Spirito delle leggi, ossia che le leggi politiche e civili “devono essere talmente adatte ai popoli per i quali sono state istituite, che è incertissimo se quelle di una nazione possano convenire a un’altra”. Sarebbe interessante, però, che nel caso dell’Italia tale idea subisse una forzatura a causa dell’indole di molti italiani, specie di coloro che ricoprono ruoli istituzionali, corrotta da una serie di vizi talmente radicati dalle nostre parti da far esclamare allo stesso Camillo Benso, conte di Cavour, in punto di morte e con l’Italia ancora in fase di costruzione, “bisogna moralizzare il paese”. Mancando, ancora oggi, la virtù politica per eccellenza menzionata da Montesquieu, ossia l’amore della patria e dell’uguaglianza, in assenza di leggi, in particolare quelle costituzionali, estremamente chiare, tali da non consentire a nessuno, compresi Stato ed Enti locali, di piegarle a proprio piacimento, ci troveremmo, anche in futuro, nella caotica situazione sopra brevemente descritta.
Meno lavoro, quindi, per gli azzeccagarbugli e più coesione tra le varie Istituzioni, nel pieno rispetto dei ruoli che le norme costituzionali dovrebbero ripartire con estrema linearità, venendo adattate solo parzialmente al popolo italiano per il quale sono state istituite.
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Gli enti locali sono dei gusci vuoti, che costano molto per poi esercitare poche e contradditorie competenze. Un governo locale dovrebbe occuparsi esclusivamente della gestione diretta di tutti i servizi fondamentali offerti ai cittadini (sanità, scuola, ambiente e cultura) e per far questo dovrebbe basarsi sulle risorse fiscali del territorio, che dovrebbe raccogliere direttamente (senza trasferimenti da Roma). Quello che si vede in realtà è una condivisione (poco chiara) di queste competenze tra stato e regioni e province. Si ha paura del governo locale ma bisogna avere il coraggio di affidare gli affari locali esclusivamente ai cittadini interessati, conferendo una responsabilità chiara dei cittadini nella prosperità o rovina del proprio territorio. Al governo dovrebbero rimanere solo compiti di coordinamento inter-regionale e di garanzia dell’ordine pubblico e giudiziario. Vedremo cosa succederà con la nuova riforma del titolo V di Renzi.
Caro Michele Casalino, grazie per il graditissimo contributo.
Io credo che la prima domanda da porsi sia: che tipo di Stato l’Italia deve essere? Stato Centrale, Stato Federale, Stato Regionale?
Nell’America appena affrancatasi dal colonialismo britannico, impiegarono qualche anno per decidere che tipo di mondo sarebbero diventati gli Stati Uniti. Fu una riflessione sofferta, nell’ambito di una grave crisi economica, ma emersero discorsi e dibattiti importanti, da cui è stata intrapresa una strada costituzionale chiara e solida. Io partirei dalla stessa riflessione per delineare chiaramente che tipo di Stato l’Italia dovrà essere in futuro. Da qui potrebbero anche conseguire cambiamenti radicali: potrebbero essere abolite le Regioni o addirittura rafforzate. A indebolimento o meno dello Stato e degli altri Enti locali.
Qualunque sia la strada, l’importante è che si abbiano bene a mente il percorso e il fine.