Sebbene si siano visti sporadici segnali di ripresa congiunturale, quali la riduzione del differenziale dei tassi d’interesse tra Italia e Germania (il famoso spread) ed un modesto ma graduale ritorno di investitori stranieri per qualche realtà italiana (per esempio il colosso americano BlackRock che ha deciso di investire sulle due principali banche italiane), sarebbe rischioso ritenersi fuori pericolo.
Questi segnali importanti sono stati ottenuti con le misure già adottate e quelle attese nel futuro prossimo dalla BCE e le ingenti iniezioni di liquidità della FED. Nessuna vera riforma strutturale ha ancora visto la luce. Negli ultimi anni gli sforzi si sono concentrati nel tentativo di identificare “il colpevole della crisi economica”, creando molta confusione. I principali imputati sono stati l’economia di mercato/liberismo economico ed i mercati finanziari. Se ci soffermassimo ad una prima analisi, senza entrare nei dettagli, sarebbe difficile essere in disaccordo. Ad ogni modo, ci sono molte considerazioni da fare.
Innanzi tutto, bisogna dire che negli ultimi due decenni abbiamo vissuto in un mondo, con i dovuti distinguo per i diversi Paesi, che globalmente ci ha offerto un modello di economia distorta, tutto tranne che una vera economia di mercato, sviluppando una connivenza tra politica e potere economico e, soprattutto, tra controllanti e controllati. Purtroppo, abbiamo avuto molti esempi che hanno fatto affiorare queste sfere di contatto e di commistione.
Ci siamo dimenticati delle lezioni di Einaudi: “Il mercato, che è già uno stupendo meccanismo, capace di dare i migliori risultati entro i limiti delle istituzioni, dei costumi, delle leggi esistenti, può dare risultati ancora più stupendi se noi sapremo perfezionare e riformare le istituzioni, i costumi, le leggi entro le quali esso vive allo scopo di toccare più alti ideali di vita. Lo potremo se vorremo.”
Nella realtà dei fatti, è successo che, oltre ad assistere ad una deregolamentazione forse eccessiva dei mercati finanziari, abbiamo visto Stati, Regioni, persino piccoli comuni e fondazioni bancarie entrare come controparti in prodotti derivati, prevalentemente SWAP ma non solo, senza avere le competenze necessarie per valutare il reale rischio di questo tipo di contratti. Il vero problema non sono questi prodotti in se (SWAP, Futures, o CDS che siano) ma il loro uso. Un bisturi non è di per se causa della cattiva riuscita di un’operazione, la quale, piuttosto, dipende da come il chirurgo lo adopera. Lo scopo di un amministratore dovrebbe essere quello di assicurarsi:
– che la vita economica avvenga secondo le regole stabilite;
– che i contribuenti non evadano i tributi, attraverso un equo sistema fiscale riducendo l’evasione, oggi ritenuta quasi fisiologica (e qui si aprirebbe un capitolo a parte);
– promuovere lo sviluppo dell’ambiente economico in cui i vari attori operano, evitando scommesse su prodotti finanziari.
In questo contesto, i contratti derivati potrebbero essere utili se usati come copertura da rischi finanziari o per aggiustare i flussi di cassa/esigenze, che si generano nel brevissimo periodo, e non per scaricare debiti e flussi di cassa negativi sul lungo periodo, il che si ripercuoterebbe sulle prossime generazioni e/o sulle successive amministrazioni; in tal caso, il prodotto derivato diventa un modo utile solo per alimentare clientelismo e generare denaro da spendere oggi senza averne il possesso, molto più pericoloso del debito stesso data la presenza di alte leve.
Non vedo nella negazione del libero mercato la soluzione ai problemi sopra citati, ma semmai in esso la possibilità di iniziare una nuova e sana crescita economica affiancata a un equilibrio certamente più stabile.
Bisogna, però, che per libero mercato si intenda ciò che ancora Einaudi descriveva come una fiera, la quale non potrebbe aver luogo se non si verificassero altre condizioni: “Tutti coloro che vanno alla fiera sanno che questa non potrebbe aver luogo se, oltre ai banchi dei venditori ed oltre alla folla dei compratori, non ci fosse qualcos’altro: il cappello a due punte della coppia di carabinieri che si vede passare sulla piazza, la divisa della guardia municipale che fa tacere due che si sono presi a male parole, […], il parroco, il quale ricorda i doveri del buon cristiano doveri che non bisogna mai dimenticare nemmeno alla fiera”.
Per molto tempo, invece, abbiamo visto la politica incitare al moral hazard di tutti gli attori del sistema economico; questo avveniva poichè miopisticamente ne traeva beneficio nel breve periodo, piuttosto che assumere il proprio ruolo, quello identificato nei due carabinieri che controllano e con la loro presenza danno soprattutto fiducia ai protagonisti della fiera nella piazza, ovvero agli attori del mercato.
Ci si è ricordati di punire il moral hazard quando era troppo tardi. Per esempio, lasciando fallire Lehman Brothers (molto probabilmente sottostimando in quel momento l’effetto domino che si stava innescando) e generando così un’immensa crisi di fiducia. A quel punto, che la politica stesse navigando a vista lo si è capito quando il governo intervenne in modo completamente opposto, ovvero salvando prima AIG e dopo Citi, acquistandone le azioni.
Cos’altro avrebbe potuto fare in quel frangente? Nulla. Era troppo tardi. La crisi di fiducia era ormai innescata. Sappiamo bene, che creare fiducia richiede molto tempo, innescarne una crisi, al contrario, è immediato.
Forse negli anni precedenti, bisognava non creare effetto leva con crediti troppo facili a chi non era meritevole e soprattutto non in grado di far fronte alle proprie obbligazioni.
Queste, brevemente, sono le distorsioni verificatesi in quella che era allora la prima economia al mondo (primato che ora spetta alla Cina) e ritenuta il modello di economia liberale.
Venendo al contesto europeo e in particolare a quello italiano, le cose si complicano ulteriormente.
In Europa da oltre un decennio si sta tendando l’esperimento di avere un mercato con un’unica politica monetaria ma allo stesso tempo molteplici politiche fiscali. Senza entrare nei dettagli, pongo una sola riflessione. Può considerarsi davvero un mercato comune una moltitudine di nazioni che hanno politiche in materia di fisco, lavoro e welfare molto differenti fra loro?
Immaginiamo 4 diversi impiegati di una stessa multinazionale che opera in Italia, Francia, Germania e Inghilterra. Avremo 4 contratti di lavoro, 4 sistemi di welfare e 4 sistemi di tassazione diversi, senza contare il fatto che l’ Inghilterra aderisce all’ Unione Europea ma non all’Euro.
Questo “unico mercato” può creare sviluppo e crescita o asimmetrie e confusione?
Oltre che annunciare di voler cambiare le politiche di austerity, sostenute con audacia e vigore dalla Germania, bisogna creare davvero un mercato comune in tutto e per tutto, che abbia le stesse regole in tutte le materie e non si riveli un regime di cambi fissi. In tal senso, potremmo immaginare l’Unione Europea come una stanza con molte porte, gli Stati, all’interno della quale ci si muove con facilità e soprattutto con le stesse regole.
Un primo passo avanti lo si è fatto con l’unione bancaria ma è ben poca cosa e non basta per uniformare integralmente il sistema economico del vecchio continente.
La situazione Italiana, nello specifico, e’ ancora più delicata. Oltre a quanto detto sopra, si aggiungono anni di mancata crescita e soprattutto il non aver capito che il mondo cambiava ed iniziava a correre molto più velocemente di prima, molto più velocemente del nostro Paese.
Solo per citare un esempio, in Italia si è sì privatizzato ma non liberalizzato. Privatizzare non è condizione necessaria e sufficiente per creare un libero mercato.
La condizione necessaria per avere una vera economia liberale è incentivare la concorrenza e soprattutto cercare di abbattere i costi e le barriere di entrata ai nuovi soggetti che vogliono affacciarsi ad un mercato. Sotto questo punto di vista in Italia abbiamo molto da fare prima di poter dire di vivere in un Paese con un sistema economico davvero liberale.
Nello specifico, può Renzi essere in grado di dare slancio al Paese ed affrontare questa rivoluzione liberale?
Così si poteva pensare. Ma, soprattutto dal giorno in cui ha chiesto la fiducia al Senato, con le mani in tasca ed un’aria quasi sprezzante dell’Istituzioni, sembra aver imboccato un’altra strada.
Molte sono le similitudini con Berlusconi, quali la facilità delle promesse, le abilità comunicative e, soprattutto, la voglia di entrambi di smarcarsi dalla Storia del Paese e marcare una discontinuità con essa, quasi come se con il suo/loro governo dovesse re-iniziare la Storia.
Motivo di rammarico è non aver avuto uno Spadolini in Senato a ricordagli, così come fece con Berlusconi nel suo ultimo discorso alla Camera Alta, che la Storia non inizia con un nuovo governo che ha come primo obiettivo quello di contrapporsi al passato.
Per poter realizzare una vera rivoluzione liberale, è indispensabile avere una piena conoscenza del proprio contesto storico, del tessuto sociale e produttivo del Paese, e da questi muovere verso più moderni modelli sociali e culturali.
Vedo l’economia di mercato ed il liberalismo l’unica via d’uscita perchè abbiamo ancora tanta strada da fare e tante opportunità da cogliere prima di vedere realizzata una vera rivoluzione liberale, non soltanto per quanto riguarda l’economia ma anche per la questione inerente a tutti i diritti civili.
