La efferata strage che ha colpito, nel cuore di Parigi, la redazione di Charlie Hebdo per le sue vignette dissacranti, ha fatto riesplodere in tutta la sua cruda portata lo scontro che l’islamismo più intollerante da anni porta alla civiltà occidentale. L’attacco alla Francia, certamente la più laica tra tutte le nazioni, che consente la satira anche su argomenti nel mondo anglosassone sovente elusi, è rivelatore di un retroterra culturale islamico, in cui il sorriso sul terreno religioso è considerato un dissacrante sacrilegio. In realtà basterebbe guardarci un po’ indietro per ricordare come anche in Italia la tradizione cattolica fosse intransigente nel condannare la derisione o la ironia sulle questioni connesse alla fede.

La patria dell’illuminismo di Montesquieu e di Voltaire, passata attraverso una delle più sanguinose rivoluzioni della storia, poi precipitata nel terrore e consegnatasi all’imperialismo napoleonico, prima di metabolizzare i principi di libertà, fratellanza ed uguaglianza che vi erano alla base, non poteva non diventare la più gelosa custode della laicità e quindi non divenire, oggi, il naturale bersaglio del terrorismo di matrice islamica. L’attacco alle torri gemelle negli USA rappresentò un atto di guerra contro il nemico militare, come il successivo attentato alla metropolitana di Londra. Quanto è accaduto a Parigi, invece, anche a differenza di altri gravi attentati avvenuti in altre parti del mondo, ha il sapore dell’attacco di tipo ideologico. La caratteristica della vignetta è che corre dal sorriso alla mente in modo diretto, senza che il lettore abbia il tempo di elaborarne il retro pensiero. Essa è, quindi, per i fautori della teocrazia, un nemico pericolosissimo, contro il quale non basta la propaganda intrisa di imperialismo rivolta in genere verso il mondo occidentale.

Non si può quindi che classificare la strage di Parigi, anche con i suoi grandissimi effetti psicologici, come un atto di guerra contro un modello di società; una guerra, che si combatte su diversi terreni ed in forme differenti. Essa ha come principale teatro innanzi tutto il mondo islamico al proprio interno, che l’ISIS va sempre più trasformando in un campo di battaglia. L’Europa è, a sua volta, il terreno nel quale tale guerra deve essere fomentata dall’interno, attraverso i combattenti che vi vengono reclutati od infiltrati. Per tale ragione la prima lezione che l’Italia deve imparare da quanto è avvenuto, riguarda l’urgenza di creare argini più consistenti all’immigrazione senza controllo, che invece è stata favorita negli ultimi anni dall’ipocrisia dell’accoglienza indiscriminata di matrice cattolica e da Governi compiacenti, che ne sono stati influenzati.

La storia del mondo è stata sempre scandita dalle guerre, che hanno manifestato, attraverso la violenza e la voglia di conquista, il desiderio di sopraffazione dell’uomo. Le civiltà man mano più evolute hanno cercato di giustificare tale ansia attraverso l’affermazione del principio teocratico dell’esportazione dell’unica “vera fede religiosa”. Si combatteva in nome degli dei o dell’imperatore, dio esso stesso. Le moderne religioni hanno infine rafforzato tale concetto, introducendo l’idea della “guerra santa”. Che cosa erano le crociate se non l’equivalente, altrettanto barbarico e disumano, dell’assalto che il fanatismo religioso mussulmano sta portando ai valori del mondo occidentale?

In guerra si uccide sempre in nome di un dio, altrimenti sarebbe difficile spingere giovani vite verso l’abisso della morte, se non con la visione onirica del premio in un’altra vita. I giovani arruolati nelle banlieu parigine, come nei centri sociali italiani e nelle aree di disagio di tutto il mondo, interpretano lo stresso ribellismo delle avanguardie comuniste degli anni settanta. Dove esiste il disagio sociale, il degrado, l’odio di classe, la sofferenza per l’emarginazione del sentirsi diversi, è facilissimo esercitare un contagio di natura ideologica, rafforzato da elementi di fanatismo religioso, fino a spingere alla guerra di religione. Lapidaria la definizione data da Oriana Fallaci di una guerrigliera palestinese, da lei intervistata: “Sembrava una monaca, o una guardia di Mao Tse Tung. Delle monache aveva la compostezza insidiosa, delle guardie rosse l’ostilità sprezzante, di entrambe il gusto di rendersi brutta, sebbene fosse tutt’altro che brutta.” Talmente invasata nella sua convinzione di condurre una battaglia-missione, Rascida Abhedo, così si chiamava, non esitava ad affermare di combattere per la pace, che val bene la vita di qualche bambino, il quale comunque sarebbe in futuro diventato un guerriero ebreo. Aggiungeva, “più bambini morranno, più sionisti comprenderanno che è ora di andarsene”. Si tratta del medesimo copione di efferatezza del quale era intriso il terrorismo nostrano, fondato su elementi di nichilismo catto-comunista.

Siamo in guerra, ma si tratta di una guerra più sporca delle altre, perché non dichiarata se non nei deliranti proclami del terrorismo clandestino. Pertanto non si sa mai chi sia esattamente l’avversario né dove potrà colpire, perché può agire all’ombra della clandestinità e mimetizzarsi nel cosiddetto islamismo moderato. Inoltre ha il privilegio di navigare nel mare sconfinato delle complicità anticapitaliste ed antiliberali, che si annidano nelle enormi sacche di odio sociale della nostra società occidentale, che le ha coltivate e pasciute, come ha fatto con le brigate rosse, che traevano origine dalla confidenza dei suoi protagonisti col lessico comunista borghese dell’album di famiglia.

Una civiltà poco consapevole dei propri valori fondanti, che sono appunto quelli della libertà, della laicità, della modernità, del superamento della dipendenza della politica dalla religione, anzi della loro netta separazione, non riesce a comprendere come l’islamismo viva ancora in una condizione di medio evo culturale ed è incapace, anzi non si sogna, di volerne uscirne. Con la conseguenza, spesso non compresa dai più, che anche la parte moderata è partecipe dei valori di fondo che animano gli estremisti. Per tale ragione è stupidità o pura ipocrisia il buonismo retorico di coloro, principalmente le gerarchie ecclesiastiche ed il mondo cattolico in genere, che propongono il dialogo. La popolarità di un Pontefice che predica un pauperismo anticapitalistico dimostra che i cattolici, prevalentemente in Italia, non hanno capito la lezione dell’Illuminismo e della profonda rivoluzione rappresentata dalla Riforma protestante, ma rimangono ottusi seguaci di una struttura clericale di potere, che tenta di guidarli come docili pecore di un grande ovile verso un cammino non dissimile da quello della teocrazia mussulmana.

La maggiore conquista delle moderne democrazie liberali è rappresentata dal riconoscimento che possono coesistere una pluralità di valori e che ognuno ha il diritto di professarli liberamente, a differenza di chi considera l’altro un “infedele” e pertanto un nemico da sterminare. Nessuna indulgenza quindi nei confronti di coloro ci considerano tali. Nessun ambiguo ammiccamento alla pacifica coesistenza di più teocrazie, alla sola condizione che quella che oggi si manifesta col fanatismo fondamentalista, fosse disposta, come l’altra, a rinunciare al proprio integralismo. Questo significherebbe cancellare le conquiste di quasi tre secoli di pensiero illuminista europeo e di concrete lotte per la libertà, la democrazia e la tolleranza   tutte condizioni essenziali per la pace.

Quella pace, che l’Europa ha raggiunto pagando l’elevatissimo prezzo di milioni di vite umane in due tragiche guerre mondiali, che hanno registrato un enorme spargimento di sangue, lutti e distruzioni durante tutta la prima metà del secolo scorso. Tali guerre sono state combattute e vinte, contro l’esaltazione teocratica della superiorità di una razza, nel nome dei valori liberali che il mondo anglosassone è riuscito ad esportare, anche pagando con la vita di molti propri figli sulle spiagge della Normandia, in Italia, in Germania ed in tutto il nostro Continente. Ne è seguita la più lunga stagione di pace della nostra storia, che ha portato al ripudio della guerra e delle dittature, al predominio del dialogo tra i popoli e del rispetto per le diversità culturali, considerate ricchezze. Elementi che hanno avuto la forza, grazie al raffronto ravvicinato con l’altra parte del muro di Berlino, di far crollare un totalitarismo imperialista, ottuso come quello dell’impero comunista sovietico.

Non riteniamo di dover seguire coloro che sostengono la tesi perdente del dialogo con chi non soltanto non vuole parlare con noi, ma respinge il nostro linguaggio, altrettanto non concordiamo con Hunthington e coloro che ritengono ineluttabile la “guerra di religione” contro l’Islam. Come la Chiesa cattolica è stata capace di abbandonare il proprio integralismo, mettersi alle spalle il sillabo, le scomuniche, gli anatemi, i tribunali dell’inquisizione e rinunciare ad una sorta di primato spirituale rispetto all’autorità laica degli Stati, siamo convinti che la modernità arriverà anche per il mondo mussulmano. A noi spetta di fare la nostra parte per favorire tale percorso di progresso, senza mai sottovalutare la pericolosità dell’attacco in corso, anzi rispondendo con fermezza e, se ne è il caso, con durezza. Tuttavia non possiamo non confidare nella evoluzione della civiltà, nel trionfo della modernità, nella inevitabile prevalenza della cultura empirica rispetto alla ignoranza messianica di una teocrazia, che spinge al sacrificio, alla guerra, alla morte. Un segnale viene dall’esempio degli Emirati Arabi, dove non sempre l’Occidente ha esportato il meglio che avrebbe potuto, ma ha certamente introdotto il gusto per la tecnologia, l’arte, la cultura, il progresso, il bello in generale, pur in un contesto che, sotto il profilo politico e costituzionale, rimane un sistema assolutistico di stampo medievale. Nel tempo, in tutto il mondo arabo, non potrà che elevarsi la consapevolezza del valore della vita umana, che è l’unico vero antidoto alla guerra. Si è disposti a perderla soltanto quando si è convinti che essa valga poco, mentre la coscienza della sua inestimabile importanza, conduce a desiderare la pacifica convivenza. E’ stato un errore pensare di poter esportare, in occasione della cosiddetta primavera araba, la nostra concezione di democrazia, perché prima ne deve essere compreso appieno il valore, che deve essere desiderato come condizione essenziale di una qualità migliore di vita. Soltanto successivamente sarà avvertito il bisogno di far diventare leggi e regole del comportamento quotidiano i principi di democrazia e libertà, intesi come conquiste che appartengono alla coscienza di ogni singolo individuo e non quale semplice importazione di un sistema politico dall’Occidente.

Non si tratta di condurre una guerra tra diverse civiltà, ciascuna intransigentemente legata ai propri principi valoriali, per affermare la prevalenza dell’una sull’altra, ma di perseguire il raggiungimento di una maturità tale da riconoscere che tutti i valori sono rispettabili e possono liberamente convivere, anzi cooperare; quindi non guerra di civiltà, ma per la civiltà.

 

239