Ieri, 8 aprile 2015, Agostino Di Bartolomei avrebbe compiuto 60 anni.
Purtroppo, ci ritroviamo in questi giorni a ricordarne la figura e non a festeggiarne il compleanno, perché questo romano di altri tempi si tolse la vita una mattina dell’ormai lontano 30 maggio 1994, in una frazione dell’incantevole comune salernitano di Castellabate. Amara ironia della sorte, se si pensa che Gioacchino Murat, ammirato dal clima salubre e dal meraviglioso panorama del luogo, disse nel 1811: “Qui non si muore!”. Così non fu per il capitano del secondo scudetto della Roma, ma solo di morte fisica stiamo parlando, perché quel che è accaduto dopo è quanto di più lodevole e, allo stesso tempo, malinconico si possa immaginare.
Lodevole, perché tutti, non soltanto nell’ambiente romanista, si sono impegnati, senza sforzo perché mossi da sentimento e ammirazione, a omaggiare un uomo taciturno e dai modi gentili, cresciuto tra la Garbatella e Tor Marancia, zone ancora oggi intrise di romanità popolare e autentica, a pochi passi dalle antiche Mura Aureliane, da un lato, e dal frenetico e metafisico Eur, dall’altro.
Malinconico, perché il mondo del calcio avrebbe dovuto mostrare la stessa sensibilità quando Di Bartolomei era ancora in vita, ma non semplicemente per gratitudine verso chi, come lui, aveva nobilitato lo sport con le sue gesta e i suoi gesti, ma soprattutto per arricchire il proprio ambiente, non sempre esaltante, con un uomo di sostanza, educazione, rispetto e serietà.
Non è un mistero che l’essere stato lontano dal mondo in cui aveva vissuto, dopo aver smesso di calciare il pallone con quel piede potente e preciso, abbia influito sulla sua drammatica decisione, quel maledetto 30 maggio. Con la stessa discrezione che aveva contraddistinto la sua vita, Agostino aveva lasciato un semplice biglietto, senza fronzoli, similmente a quanto fece Cesare Pavese. “Mi sento chiuso in un buco”, queste le sue ultime parole che, ancora oggi, stringono il cuore di chi è cresciuto apprezzandone le qualità, le giocate, la visione di gioco e i tiri potentissimi, le interviste pacate e intelligenti.
Di Bartolomei, come giustamente scritto da Diego Mariottini nel suo bellissimo articolo pubblicato ieri su Gazzetta.it, era un “personaggio amato ma mai compreso fino in fondo, stimato ma non abbastanza elevato a esempio positivo. Coccolato dalla curva ma lasciato andar via con troppa facilità”. Giocò nel Vicenza, nel Milan, nel Cesena e nella Salernitana, ma per tutti il suo nome si identifica con la squadra da lui amata e alla quale avrebbe desiderato rientrare nell’ambito dei quadri dirigenziali: l’AS Roma. Ancora oggi il suo volto campeggia al centro della Curva Sud, raffigurato su una grande bandiera sventolante, con il suo sguardo fiero, inseverito dalle sopracciglia e dai capelli neri come quelli degli antichi romani.
Sul sito ufficiale della Roma, ieri, un commovente ricordo: “Agostino Di Bartolomei è stato il Capitano della Roma più bella, più forte, più colta e più popolare di sempre.
Agostino Di Bartolomei è stato, è e sarà il Capitano per sempre della Roma”. Si respira il ricordo di un altro calcio, sicuramente non greve come quello di oggi, con il capitano di quella squadra capace di deliziare con massime ormai nella storia di questo sport: “La Roma è il cuore antico di questa città antica com’è antico il mondo” e “Ci sono i tifosi di calcio e ci sono i tifosi della Roma”. Poesia pura, sussurrata con ferma e dignitosa descrizione. Quanto è lontano quel mondo da questo di oggi, fatto di razzismo, violenza e spettacolo di dubbissimo gusto, nello stile, ormai dominato da creste e murales di tatuaggi, e nella sostanza, troppo spesso trascurabile anche in molti dirigenti.
Agostino Di Bartolomei, come Gaetano Scirea, altro straordinario giocatore e uomo di quegli indimenticabili anni ’80, capitano della Juventus che con la Roma aveva intavolato una sfida entusiasmante, anche egli sfortunato per una morte altrettanto tragica, è la dimostrazione che la nobiltà nel calcio esiste e che, per recuperarla, è opportuno guardarsi indietro, giacché “Historia magistra vitae”, per citare Cicerone. Volgere lo sguardo al passato, in questo caso, significa stampare nella mente la più grande lezione lasciataci da Di Bartolomei: “A me piacerebbe che i ragazzini imparassero da piccoli ad amare il calcio, ma non prendendo a modello alcuni dei miei capricciosi colleghi”. Chapeau!
