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Ancora una volta il Governo è stato costretto a cercare spiegazioni acrobatiche per attenuare l’impatto negativo dei dati diffusi dall’ISTAT sull’andamento deludente del ritmo di crescita dell’economia nel 2015 con un progressivo calo dal primo trimestre (0,4), al secondo (0,3) al terzo (0,2) al quarto, (0,1) e con una prospettiva quindi non rassicurante per il 2016. L’incremento del PIL, in ragione d’anno, è stato circa la metà della media dell’area Euro, complessivamente in ragione dello 0,6 rispetto allo 0,8 ipotizzato dal Governo. Anche la previsione per il 2016, indicata nelle Legge di stabilità nell’ordine dell’1,7%, probabilmente non sarà superiore all’1% e forse ancora meno. Tale andamento negativo è certamente influenzato da una congiuntura internazionale che si annuncia negativa, ma se la crescita italiana è quattro volte inferiore a quella della Spagna, che sconta anche una grave crisi politica, evidentemente vi sono cause specifiche, che l’Esecutivo col suo superficiale ottimismo e dando un valore salvifico a modeste riforme, a non riforme o a riforme sbagliate, ha sottovalutato.
Il provvedimento pretenziosamente e ridicolmente chiamato Job act, in lingua inglese per ottenere un maggiore impatto sull’opinione pubblica, è stato poco più che un solletico a causa delle sua natura di manifesto piuttosto che di reale e profonda riforma del mercato del lavoro. Anche il Decreto Madia, non rappresenta altro che il solito maquillage che non affronta il problema principale della inefficienza di una pubblica amministrazione sciatta, clientelare, elefantiaca, incapace di aiutare gli utenti assumendosi delle responsabilità, ma solo di frenare e scoraggiare dicendo di no, ed inoltre corrotta e gelosa del proprio potere d’interdizione. La legge elettorale e la riforma del Senato costituiscono un vero e proprio attentato alla democrazia fondata sull’equilibrio dei poteri, facendo dipendere in modo pasticciato e senza alcun bilanciamento tutti gli organi costituzionali da un uomo solo al comando. E’ quindi evidente come tali riforme inidonee o peggiorative non abbiano convinto gl’imprenditori ad esporsi con nuovi investimenti, oltre ad indurre l’Europa ad osservarci con motivato scetticismo ed i mercati a cogliere i segni di debolezza.
In realtà la nostra economia è frenata da alcuni fattori che, se non affrontati, non consentiranno l’inversione della attuale negativa tendenza. Da una parte il peso di uno spropositato debito pubblico, che incide sulla fiducia verso il Paese, dall’altra una pressione fiscale, ormai a livello espropriativo, finalizzata al mantenimento di un apparato burocratico faraonico, gestito in maniera clientelare, che offre spazi immensi alla corruzione. Tutto questo rappresenta un freno obiettivo per lo sviluppo e la produttività.
Il Ministro dell’Economia appare persino patetico, quando promette che nell’anno in corso vi sarà una inversione di tendenza e che il debito pubblico potrà ridursi di una 0,4% sul PIL. Purtroppo, secondo le previsioni più recenti, l’andamento dell’economia sembra di segno completamente diverso. Per rendere quindi credibile un cambiamento di tendenza, bisognerebbe mettere in atto un drastico programma di dismissioni di asset pubblici, mobiliari ed immobiliari, in grado di determinarne un’immediata riduzione di un dieci per cento nell’anno e di un ulteriore 20/25% nel prossimo quinquennio. Tale programma potrebbe essere realizzato con facilità ed immediatezza attraverso una società veicolo. L’impatto sarebbe enorme, rappresenterebbe quanto l’Europa ed i mercati si aspettano e certamente mobiliterebbe un’imponente massa di investimenti privati, oggi bloccati dall’incertezza. Allo stesso tempo, una spendig review dell’ordine di cinquantamila miliardi nel prossimo quinquennio, che gli studi dei commissari appositamente nominati hanno dimostrato possibile, servirebbe ad eliminare costi inutili e corruzione, consentirebbe al medesimo tempo una importante riduzione del carico fiscale sulle imprese, sul mondo delle partite IVA e sulle famiglie, rilanciando i consumi. Fino a quando la mentalità clientelare, ereditata dalla cultura sindacal catto comunista, che ancora pervade il Paese, prevarrà e non si prenderà la decisione di imboccare decisamente la strada della modernità, l’Italia, che pure ne ha le potenzialità, non si risveglierà dal proprio rassegnato torpore.

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