c3935a19-8e9f-4771-a250-def5091199a4_medium

1 – Uno sguardo al passato

Lungo sarebbe l’elenco dei benefici che l’Unione economica e monetaria europea ha portato ai Paesi che ne fanno parte, nei quasi sessant’anni che sono trascorsi dalla sua originaria costituzione.

Mi limiterò perciò a ricordarne soltanto due, che ci riguardano più direttamente come italiani.

In primo luogo l’Italia non sarebbe certamente diventata l’ottava potenza economica del mondo, e la seconda potenza europea dopo la Germania per l’export industriale, se non avesse potuto avere un mercato interno della dimensione europea, che ha un Pil di 14.000 miliardi di euro, sostanzialmente pari a quello degli Stati Uniti, e molto superiore a quello degli altri competitors mondiali.

In secondo luogo i problemi suscitati dall’enorme debito pubblico, che gli italiani di oggi hanno ereditato dalla crisi sociale degli anni ’70 e dalla gestione sconsiderata della finanza pubblica negli anni ’80 del secolo scorso, sono stati resi almeno gestibili dall’adozione di una moneta “forte”

come l’euro. Il peso degli interessi del debito pubblico sul Pil si è ridotto di due terzi (dal 12,6% del 1992 al 4,2% del 2015), in ragione della diminuzione dei tassi d’interesse richiesti dal mercato per i debiti denominati in euro, un fenomeno che non si è certo verificato per i Paesi che hanno valute “deboli”, come ad esempio la Russia o il Brasile.

Il fatto che la forte riduzione di questa voce della spesa pubblica sia servita soltanto a finanziare l’espansione di altre voci della spesa corrente, e non la riduzione del debito (che è aumentato) o l’aumento degli investimenti (che sono diminuiti), è un problema di cui chiedere conto alla nostra classe politica, e non fa parte dell’analisi costi-benefici dell’Unione europea.

A conclusione di questa breve analisi preliminare, può essere utile ricordare che il presidente della Confindustria Squinzi, che – secondo i sostenitori di un’uscita dall’euro – dovrebbe rappresentare gli interessi di coloro che ne sarebbero i maggiori beneficiari, ha citato in più occasioni uno studio dell’Unione di Banche Svizzere (UBS), secondo cui le conseguenze di un’uscita dell’Italia dall’ euro determinerebbero un crollo del Pil italiano, cioè una perdita permanente nella produzione annuale di reddito per gli abitanti che può essere stimata dal 25 al 30% del nostro Pil, cioè oltre 500 miliardi di euro all’anno.

2 – Attualità e prospettive dell’UE

Come tutti i fenomeni politici e sociali, l’UE può essere guardata nella prospettiva del “bicchiere mezzo pieno” e in quella del “bicchiere mezzo vuoto”.

Nella prima prospettiva si presenta il superamento della devastante crisi internazionale iniziata nel 2008, che infine aveva preso di mira i debiti sovrani dei Paesi più deboli dell’euro (i cosiddetti PIIGS) e l’euro stesso. Questa fase “europea” della crisi ha avuto i tratti più acuti nel periodo intercorso fra l’ottobre 2010, cioè dalla cosiddetta dichiarazione di Deauville di Merkel e Sarkozy, e il luglio del 2012, con la celebre dichiarazione di Draghi: “We will preserve the euro, whatever it takes”.

Queste vicende hanno rappresentato in definitiva la prova del fuoco dell’euro e dell’Unione economico-monetaria europea, e indicano chiaramente che indietro non si torna. Esse dovrebbero convincere – anche chi da noi era entusiasta delle sfide di Varoufakis e Tsipras – che l’Unione Europea è un bene da preservare “whatever it takes”, e inoltre che la strategia decisa con il “Single Market Act [1986]” e con il Trattato di Maastricht [1992] ha rappresentato la scelta giusta per costruirla.

Infatti, per molte ragioni il percorso costitutivo non sarebbe potuto essere come quelli già sperimentati nella Storia, che si svolsero nell’Ottocento per il Risorgimento italiano e per quello tedesco: costruire prima l’unità politica e, a seguire, l’unificazione dei mercati e delle infrastrutture, come la rete dei trasporti, la finanza, la pubblica istruzione, e così via.

L’esperienza dell’Unione europea è stata, ed è, un esperimento del tutto innovativo rispetto agli schemi del passato. Essa ha posto come preliminare [1] l’unione economica con le quattro libertà di circolazione; a seguire [2] l’unione monetaria; e [3] l’unione bancaria ora in corso. I passi successivi saranno [4] l’unione fiscale; e infine [5] l’unione politica.

I protagonisti assoluti della fase che ho definito come la “prova del fuoco” dell’Unione economico-monetaria sono stati la Banca Centrale europea e il suo presidente Mario Draghi, che ha saputo creare il consenso affinché anche in Europa si seguisse il percorso di politica monetaria tracciato dalla FED americana, con un programma non convenzionale (quantitative easing) volto all’immissione straordinaria di mezzi monetari nella circolazione, per ben sessanta miliardi di euro al mese.

Per avere un dato comparativo, si può ricordare che fra il 2008 e il 2015 la FED ha incrementato il proprio bilancio di quattro volte e mezzo, da 1.000 a 4.500 miliardi di dollari; mentre quello della BCE è triplicato rispetto al 2008, da 1.000 a 3.000 miliardi di euro; con una punta massima registrata in coincidenza proprio con la dichiarazione di Draghi sopra ricordata, all’inizio del mese di luglio 2012. Un’azione dunque molto consistente, sebbene di portata inferiore a quella condotta negli USA. Tuttavia, partire dal mese di marzo 2016, è annunciata una nuova azione di QE da parte della Banca Centrale Europea, per contrastare le tendenze deflazionistiche e recessive.

3 – Il bicchiere mezzo vuoto

In questa prospettiva si vedono i limiti ben noti dello strumento costituito dalla politica monetaria. Usando un’immagine semplice per dare un’idea, si può dire, infatti, che essa agisce come una corda, con cui è possibile estrarre il sistema economico dalle paludi delle recessioni, ma che non può invece servire per spingerlo sulle strade dello sviluppo.

In effetti, le misure che si denominano QE hanno salvato gli USA e la UE dalla ricaduta in una grave recessione come quella degli anni precedenti, ma non hanno in effetti potuto riportare la crescita ai livelli precedenti alla crisi.

I risultati fino ad ora deludenti nel caso europeo dipendono anche dal fatto che, anche nel ristretto ambito della politica monetaria, i comportamenti non sono proprio del tutto lineari. Se da un lato la BCE stampa moneta con il QE, dall’altro gli altri organi della UE fanno il contrario ponendo vincoli sempre più rigidi sulle banche, che – negli effetti di politica monetaria – corrisponderebbero ad aumenti dei coefficienti di riserva obbligatoria. L’unico effetto certo di questo contrasto è quello di disorientare i mercati.

La mancata ripresa dopo la crisi ha dissolto l’aura magica che in passato aveva avvolto il processo di costruzione europea. Anche in un Paese che un tempo si distingueva per l’alto grado di consenso verso la prospettiva europea, come si può dire per l’Italia dove peraltro la stagnazione risale a ormai più di un quindicennio, i malumori sembrano ormai quasi fare premio sulle speranze di un avvenire migliore collocato nella cornice europea.

In questo sfondo di disagio si collocano alcuni elementi che peggiorano il quadro d’assieme. In sintesi essi sono rappresentati dai seguenti:

A – Gli strascichi della crisi greca, che pure mostra qualche sintomo di miglioramento registrato dall’upgrading del rating internazionale per il debito greco (da “CCC +” a “B -“ 1); un primo passo di un cammino verso il risanamento, indubbiamente ancora irto di pericoli, di difficoltà e sacrifici.

B – L’emergenza creata dai flussi migratori alimentati dalle guerre civili in corso nel Medio Oriente e in Africa, e che riflettono i rischi creati dall’avere abolito le frontiere europee interne (Schengen), prima di avere costruito o rafforzato una frontiera esterna comune.

C – La prospettiva del referendum britannico sulla permanenza nell’UE, che, anche assegnando poche probabilità a un eventuale esito negativo per il legame con gli altri Paesi europei, potrebbe comunque condurre a un indebolimento dei Trattati dell’Unione.

D – Le divergenze politiche che si registrano fra i Paesi che costituiscono il nucleo “storico” dell’Unione europea, e quelli orientali di accesso più recente, come la Polonia, l’Ungheria e i Paesi Baltici.

A queste problematiche si sarebbe aggiunto di recente un “dossier” italiano, che – a sua volta – si articola in una serie di punti di contenzioso, come segue:

i – La richiesta di una maggiore flessibilità in tema di politica fiscale, e in particolare dei limiti alla spesa in disavanzo.

ii – La questione degli aiuti da corrispondere alla Turchia in funzione di contrasto alla crescita incontrollata dei flussi migratori in provenienza dal Medio Oriente.

iii – La questione della gestione dei crediti bancari in sofferenza (non performing loans, npl), del divieto di aiuti pubblici alle imprese, e dell’applicazione di nuove norme ai salvataggi bancari (bail out – bail in).

iv – Gli aiuti di Stato alla siderurgia.

v – Le questioni legate al raddoppio del gasdotto “North Stream”, e all’ applicazione di sanzioni alla Russia in conseguenza del conflitto in Ucraina.

Con l’eccezione del primo fra questi argomenti (la revisione del trattato sulle politiche fiscali – fiscal compact), ad un osservatore esterno potrebbe risultare difficile comprendere perché questi temi di contenzioso siano trattati direttamente dal Presidente del Consiglio italiano, invece che dai normali canali diplomatici interni comunitari, accentuando peraltro i toni del confronto con espressioni colorite come “pestare i pugni sul tavolo (cioè rifiutare la proroga delle sanzioni alla Russia per l’Ucraina, e gli aiuti alla Turchia in funzione prevenzione flussi dei migranti)”; o “Il nostro mestiere è guidare l’Europa, non prendere ordini”. Salvo ricevere dal presidente della Commissione UE Jean-Claude Juncker una risposta di questo tono:L’atmosfera tra Roma e la Commissione non è delle migliori. Il primo ministro italiano, che amo molto, ha torto a vilipendere la Commissione a ogni occasione, e non vedo perché lo faccia”.

I toni usati dal Presidente del Consiglio italiano sono toni inusualmente aspri rivolti contro l’Europa dei burocrati e contro l’austerità a guida tedesca, tanto che a molti di noi torna alla mente il personaggio di Gian Burrasca. L’effetto però fino ad ora è stato il completo isolamento, e anche qualcosa di peggio, se si pensa alla vicenda della misteriosa comparsa di una lettera inviata a sei banche italiane da parte della vigilanza BCE, diffondendo una notizia che ne ha accentuato un crollo dei corsi azionari. In senso analogo sembrerebbe la ricomparsa di ricorrenti richiami sull’eccessivo indebitamento dello Stato italiano. Tanto è bastato per fare tornare alla mente di qualcuno un presunto complotto ordito ai danni del governo italiano allora presieduto da Silvio Berlusconi, che ne avrebbe alla fine provocato la caduta nel novembre del 2011.

Diversa dagli altri punti del contenzioso è invece la questione che riguarda il “fiscal compact”, perché quest’ultima attiene al principale strumento di politica economica, indispensabile per riprendere la crescita. Ma anche la revisione del “patto di politica fiscale”, che pur avrebbe una convincente giustificazione se si prefiggesse di ottenere l’introduzione di una golden rule, cioè l’esenzione di una certa aliquota di investimenti pubblici dai vincoli del fiscal compact, dovrebbe comunque essere vista nella prospettiva non conflittuale di una procedura di revisione dei trattati.

Si dovrebbe considerare in questo caso l’apertura di un nuovo progetto, che avvierebbe una fase successiva (indicata in precedenza con il numero [4]) del processo di unificazione europea (Unione fiscale).

*       *       *

Queste considerazioni ci conducono alla questione più politica del nostro tema.

La direzione di marcia nell’ambito della politica internazionale è definita dalla prospettiva di un’unione euro-atlantica, cioè il cosiddetto Trans- Atlantic Trade and Investments Partnership (TTIP) ora in discussione fra Washington e Bruxelles, che prevede il polo europeo associato a quello nordamericano e integrato in una “ever closer Union”. Resta da vedere con quale velocità si procederà in questa direzione, e – dal punto di vista dei singoli Paesi sovrani europei – se la “ever closer Union” riguarderà tutti i ventotto Paesi dell’Unione, oppure soltanto quelli dell’Area euro, o forse un’area ancora più ristretta.

Sul piano interno nazionale, chi non volesse vedere l’Italia rimanere a fare parte del gruppo dei Paesi coinvolti nel progetto europeo, e avesse invece progetti diversi, come per esempio una confederazione dei Paesi sudeuropei (ma con chi dovremmo in definitiva immaginare di confederarci?) o forse addirittura trans mediterranei, è ovviamente libero di esporli e di sostenerli. Le regole della democrazia ci consentiranno alla fine di scegliere.

4 – I nuovi passi per un’Unione sempre più stringente (ever closer Union)

Per superare la fitta cortina fumogena di parole dal significato ambiguo o che ne sono del tutto prive, che è una barriera particolarmente fitta nei casi in cui il termine “Unione fiscale” è correntemente utilizzato, basterebbe dire semplicemente che procedere verso l’Unione fiscale significherebbe attribuire agli organi dell’Unione una capacità di spesa ben superiore a quella attuale. La capacità di spesa dell’Unione è oggi limitata a 145 miliardi di euro: una somma ingente in termini assoluti, ma pari solo all’1% della ricchezza annuale generata dai paesi UE.

Questa strada oggi incontrerebbe ben presto un limite invalicabile costituito dal principio “no taxation without representation”; è perciò dovrebbe procedere in parallelo alla riforma politica e istituzionale dell’Unione, mediante l’elezione più possibilmente diretta dei suoi organi di governo.

Ciò era chiarissimo per Jacques Delors, il principale ideatore del percorso sin qui svolto. Infatti, Delors, dopo l’avvio della moneta unica, propose l’elezione diretta del Presidente della Commissione europea, cioè dell’organo che – insieme al Consiglio europeo degli Stati – costituisce l’apice del governo dell’Unione. Credo che dopo avere compreso le ragioni per cui la proposta di Delors non ebbe seguito, essa andrebbe riveduta e riproposta.

Nell’attesa che i tempi per una grande riforma della “governance” europea giungano a maturazione, dovremmo almeno chiederci che cosa noi possiamo fare per l’Europa.

Innanzitutto auspicare di avere una rappresentanza orientata al dialogo con gli altri soggetti europei, e non al conflitto strumentale a scopi di politica interna, cioè al corso che sembrerebbe aver preso l’attuale leadership italiana.

In secondo luogo promuovere e sostenere le associazioni che si prefiggono il completamento dell’Unione economica e fiscale europea, assieme al traguardo della riforma politica dell’Unione, cioè l’elezione diretta non soltanto del Parlamento europeo ma anche del Presidente della Commissione. Il comitato “Notre Europe” di Jacques Delors e il comitato “Altiero Spinelli” di Guy Verhofstadt sono due buoni esempi in questo senso, e meriterebbero maggiore sostegno anche nel nostro Paese.

Carlo Scognamiglio Pasini 

Professore emerito di Economia Applicata, Università LUISS-Guido Carli

282
CONDIVIDI