Ormai da settimane, come se si trattasse di una gara ad inseguimento, tra Governo, Unione Europea, ISTAT, istituti specializzati ed agenzie di reting, si rincorrono i dati sulla crescita economica del Paese, sull’occupazione, sui consumi. Ogni scostamento dello zero virgola viene da una parte sottolineato con espressioni enfatiche, quali indicatori della ripresa e, dall’altra, subito dopo, confutato, sulla scorta di un altro minimo decremento, presentato come il segno di una nuova fase recessiva.
Il Ministro Padoan, sovraesponendosi e mettendo a rischio la propria indiscussa competenza ed autorevolezza di economista, sembra diventato un equilibrista, ogni giorno costretto a difendere l’indifendibile nei confronti delle critiche di Buxelles, delle incertezze dei mercati, delle turbolenze delle borse, delle feroci critiche dell’opposizione. Sembra ormai certo che l’UE imporrà una manovra di aggiustamento del DEF di tre o quattro miliardi a causa di una congiuntura internazionale negativa e della estrema fragilità delle misure adottate dall’Esecutivo, che non ha scelto la strada obbligata dei tagli, ma quella della flessibilità, quindi del debito.
Non basta proclamarsi riformisti o far credere che provvedimenti di modestissimo impatto, come il cosiddetto job act, possano sospingere una economia ripiegata su se stessa, come quella italiana. Nessuno crede alla solidità del nostro sistema bancario, ogni giorno ribadita, nel momento in cui il notevole ammontare delle sofferenze induce ad insistere per un intervento pubblico, ancorché impedito dalla normativa europea, attraverso la creazione di una bad bank, cui affidare i crediti incagliati o in sofferenza. Rimane il fatto inconfutabile che il finanziamento alle aziende ed alle famiglie si è bloccato. Inoltre la crisi di alcuni Istituti è innanzi agli occhi di tutti e molti di essi sono sull’orlo della bancarotta, nonostante gl’interventi legislativi di sostegno, principalmente nel campo delle Banche cooperative e di quelle di credito cooperativo. Intanto i consumi rallentano e spingono il Paese verso una fase di deflazione e gl’investimenti crollano.
Il Governo, anziché continuare ad esporsi con annunci, che puntualmente non si realizzano,insistendo con provvedimenti che non toccano gli sprechi, le rendite di posizione, l’enorme spesa clientelare e burocratica, dovrebbe prendere atto che il macigno del debito pubblico è il fattore determinante per la mancanza di fiducia nei confronti del Paese. Abbiamo più volte insistito sulla urgenza di mettere in vendita patrimonio statale, mobiliare ed immobiliare, per due o trecento miliardi con un procedimento semplice e dall’effetto immediato, come fecero subito dopo l’Unità, i governi liberali della Destra Storica, cedendo parte del demanio pubblico e raggiungendo con Quintino Sella il traguardo del pareggio di bilancio.
Bisognerebbe adeguarsi ai suggerimenti dei commissari nominati per la spending review, in particolare Cottarelli, che hanno spiegato come si potrebbe ridurre l’attuale spesa esorbitante, eliminando diseconomie, inutile burocrazia e corruzione, con un programma di risparmi dell’ordine di cinquanta o sessantamila miliardi in cinque anni.
Queste due cruciali decisioni consentirebbero di riconquistare la fiducia dell’UE, dei mercati e delle Agenzie di reting. Abbattuto il debito statale, si potrebbe, grazie alle economie di bilancio realizzate per i minori interessi e per i tagli alla spesa clientelare, emanare un provvedimento per rendere stabili gl’incentivi per le nuove assunzioni, eliminare del tutto l’odiosa IRAP, rendere meno espropriativa l’IRES, ridurre di almeno di due o tre punti le aliquote IRPEF per tutti gli scaglioni. Se poi si volesse fare una politica riformista non solo a parole, bisognerebbe eliminare le Regioni, fonti di sprechi, inutile burocrazia e corruzione, o quanto meno, ridurle a sette od otto, limitandone i poteri, principalmente quelli di natura legislativa e cancellando la categoria di quelle a Statuto Speciale. Bisogna inoltre incentivare ed, in alcuni casi imporre l’accorpamento dei Comuni minori, riducendoli ad un massimo di tremila, rispetto agli attuali ottomila.
Senza tuttavia un incisivo intervento in materia di giustizia, continueranno a rimanere scoraggiati gli investimenti, in particolare quelli stranieri. Bisogna prioritariamente eliminare l’anacronistica esistenza di un separato giudice amministrativo e di uno tributario, riconducendo tutto alla competenza di quello ordinario. Poiché inoltre la lentezza della giustizia civile favorisce soltanto chi non vuole far fronte alle proprie obbligazioni, bisogna prendere atto del palese fallimento della conciliazione presso un organo terzo e invece rendere obbligatorio tale tentativo davanti al tribunale, accorciando gli attuali temimi processuali inutili è troppo lunghi. Dopo la prima udienza dovrebbe essere previsto un provvedimento provvisorio immediato sulla base del fumus boni juris, penalizzando pesantemente, sotto il profilo delle spese, la parte soccombente, con eccezione delle questioni motivatamente ritenute in sentenza rilevanti ed obiettivamente incerte, quindi degne di un intervento del magistrato per dirimere una controversia, altrimenti difficilmente risolvibile.
Le finte riforme non ci porteranno lontano, mentre il Paese avrebbe bisogno di grandi cambiamenti, di modernizzazione, di fiducia, di un rinnovato clima etico, di un nuovo anelito verso traguardi sempre più avanzati di civiltà e di libertà.
