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Il circuito logico del prelievo fiscale è noto. Lo Stato non spende soldi propri. Lo Stato non produce ricchezza, non crea risorse. Lo Stato esige i soldi dei cittadini. La spesa pubblica è un ospite necessario nelle nostre tasche.

Sia ben chiaro, tutto ciò è giusto, almeno moderatamente giusto.Nel patto sociale lo Stato assicura ai cittadini i servizi fondamentali. L’istituzione della Res Pubblica ci ha elevato dalla condizione di natura dove l’homo lupus divora l’homo lupus e ad oggi, finalmente, l’homo Equitalia sbrana l’homo contribuente. E’ un prodigioso sviluppo della catena alimentare, dal lupo alla belva esattrice.

Lo Stato preda dunque le risorse economiche dei suoi sudditi. La Repubblica Italiana è fondata sul lavoro dei singoli che sono chiamati, quali contribuenti, al dovere di concorrere alla spesa pubblica.

Ebbene il rapporto di frizione fra Stato esattore ed il cittadino inciso dall’imposta è un argomento antico, assai risalente.

Le stesse sacre scritture ne sono prova. L’evangelista Matteo scrive ciclicamente di “pubblicani e peccatori”. Le due figure dell’agente della riscossione e del peccatore sono dunque accostate nel testo sacro, quasi a voler significare che l’esazione d’imposta, per osmosi concettuale, è anch’essa un po’ peccato. Ancor più chiaro, nel rappresentare il disprezzo sociale verso il prelievo del tributo, è Luca, che riferisce di “pubblicani e prostitute”, il che, contestualizzando ai giorni nostri, equivarrebbe a parlare di Equitalia ed escort.

Eppure ai tempi le regole dell’imposizione erano molto diverse. Per finanziare l’impero Augusto introdusse il collatio lustralis,l’equivalente delle nostre Ires ed Irap. Tale tributo gravava sui profitti delle attività d’impresa e libero professionali, meretricio incluso. Nel confronto con i sistemi d’imposizione moderni il collatio lustralis impressiona per l’aliquota d’imposta. Il dovuto era infatti liquidato in ragione del 2% annuo dei profitti d’impresa.

Nel Medioevo, in agricoltura, pochi secoli dopo, la decima fu allora considerata un’imposta oppressiva perché riscuoteva perfino il 10% del raccolto.

Nel nostro secolo di libertà, nel nostro Stato di democrazia, le aliquote di decima e collatio lustralis sono considerate da paradiso fiscale.

L’intero bacino del mediterraneo dal settimo secolo A.C. al terzo dopo D.C. è stato di fatti un immenso, legalissimo, paradiso d’imposta perché un carico tributario eccessivo era anticamente considerato incompatibile con la condizione di uomo libero.

Un uomo che avesse lavorato per poi assoggettarsi alle aliquote attuali sarebbe stato giustamente considerato uno schiavo, non un cittadino libero, e nel mondo antico il concetto di libertà individuale era centrale.

Saltando di ben duemila anni in avanti, la banca Mondiale degli Investimenti, rileva oggi il total tax rate sui profitti d’impresa. In altre parole stima la reale pressione del pronipote del collatiolustralis. Nell’anno 2015 il total tax rate italiano è stato del 64,8% e nel 2008 svetta un incredibile 73,3%.

Una pressione rilevata del 73,3% sul reddito d’impresa in tempi moderni e, ciononostante, lo Stato non ci considera suoi schiavi d’imposta, ma solo contribuenti diversamente liberi. Viene quasi voglia di riprendersi la decima.

In vero la pressione fiscale ha virato verso l’oppressione norma dopo norma, legge su legge. Il popolo sovrano, il parlamento che lo rappresenta, il governo che lo amministra hanno perso tutti il senso del sistema tributario, retrogradandolo a mero aggregato d’imposte.

La recente normazione fiscale è un’eutanasia prematura ed immiserevole della vis vitalis del paese, del mercato e dei consumi. La trappola della povertà è innescata. La carta costituzionale è immolata sull’altare di una spesa pubblica troppo spesso gestita a fini privati.

Lo Stato è dunque ospite necessario nelle nostre tasche, ma quando il denaro dei contribuenti non si traduce in servizi reali diviene ospite parassitario. Vigente l’art. 53 della Costituzione, tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva, quindi dell’attitudine del singolo al sostentamento dello Stato.L’imposta è dunque un dovere costituzionale, ma come tale sarebbe chiamata a coordinarsi con i tanti diritti fondamentali che la Costituzione riconosce agli italiani.

In concreto, la Repubblica è obbligata a garantire al cittadino una retribuzione che gli consenta un’esistenza libera e dignitosa, Art. 36 Cost. Il minimo vitale di sostentamento è dunque inviolabile, non può essere tassato e non costituisce capacità contributiva.

V’è altro. La Costituzione, art. 47 Cost., tutela il risparmio privato. Ed ancora, l’iniziativa economica è libera, art. 41 Cost.Solo che senza mezzi finanziari l’iniziativa economica ed il risparmio semplicemente non sono.

La capacità contributiva si delinea dunque in contorni più definiti. Non è l’intera forza economica del contribuente, ma è la capacità finanziaria al netto del minimo vitale, del risparmio tutelato, dei mezzi necessari all’impresa economica, nonché al netto di ogni altra risorsa impiegata dal cittadino per esercitare qualsivoglia suodiritto costituzionale.

La Costituzione è certo un manifesto di civiltà giuridica, solo altrettanto trascendente. In altri termini la capacità contributiva, dall’alto della sua elevatissima levatura costituzionale, deve contaminarsi con le esigenze dello Stato e la contingenza tributaria. E’ proprio in questa fase, quando dal trascendente di diritto si passa alla pragmaticità del prelievo, che sorgono le prime criticità.

Per farsi tributo la capacità contributiva deve essere misurata e pesata in capo al singolo contribuente. E’ un’operazione a cuore aperto in cui intervengono gli indicatori di capacità contributiva. In buona sostanza gli indicatori sono delle manifestazioni misurabili della ricchezza del contribuente che consentono al principio costituzionale, attraverso una banale moltiplicazione per l’aliquota, di divenire imposta in concreto e confluire nelle casse dello Stato.

Una storica sentenza della Corte Costituzionale afferma il principio che “… rientra nella discrezionalità del legislatore, con il solo limite della non arbitrarietà, la determinazione dei singoli fatti espressivi della capacità contributiva che, quale idoneità del soggetto all’obbligazione di imposta, può essere desunta da qualsiasi indice che sia rivelatore di ricchezza e non solamente dal reddito individuale …” (Corte Costituzionale sent. n. 156/2011)

Traduciamo. E’ facoltà dello Stato individuare una qualsiasi manifestazione di ricchezza del contribuente, sia essa diretta o mediata, e strutturarvi sopra un tributo e, quindi, una nuova forma di prelievo. Ciò che la Consulta non dice è che gli indicatori di capacità contributiva dovrebbero essere tra loro coordinati per armonizzare il carico d’imposta ed evitare abusi, paradossi, duplicazioni.

Le imposte in Italia non sono le variabili di un algoritmo del prelievo che assicuri gettito alle spese pubbliche senza derive verso l’oppressione del contribuente. I tributi sono di contro accatastati e impilati sulle spalle del contribuente, talvolta sopprimendone ogni iniziativa ed aspirazione.

Un sistema armonizzato, matematicamente un’equazione del gettito, ragiona secondo le regole del criterio logico sottostante e, se ben costruito, evita paradossali iniquità. Di contro un aggregato di imposte è meccanico, non senziente e si limita ad accumulare tributi sul cittadino, virtualmente senza altro limite che la sopravvivenza stessa del consociato, ma con l’inspiegabiletendenza a superare troppo spesso tale limite fino a indurre alla disperazione ed al suicidio il singolo e considerando la sua morte solo un tollerabile errore di sistema. Ebbene siamo tutti vittime dell’aggregato tributario, tutti operatori del non sistema fiscale.

Un esempio di aggregazione molesta. Se il possesso di reddito è il formidabile indicatore di capacità contributiva alla base dell’Irpef, il presupposto d’imposta dell’Imu è il possesso di beni immobili. Ebbene la tassazione Irpef interviene allorquando il contribuente ha già assolto il proprio debito Imu, destinando parte delle proprie sostanze al concorso alle spese pubbliche. Eppure l’Imu è indeducibile dalla base imponibile Irpef e, quindi, il contribuente è nuovamente chiamato ad assoggettare ad imposta sul reddito quelle somme con cui ha già concorso alle spese pubbliche pagando l’Imu.

Il difetto di coordinamento è evidente. Il sistema tributario è un non sistema, è un aggregato più o meno casuale di innumerevoli tributi che si affastellano sui contribuenti incapaci di esigere equità d’imposta e che presto conosceranno il lato oscuro dell’accertamento.

In vero non è dato neanche intuire quale sia il limite della pressione tributaria individuale. Le norme si intrecciano e si dimenticano l’una con l’altra in danno del privato.

Fino al giorno in cui il legislatore non armonizzerà le manifestazioni di capacità contributiva poste a base degli infiniti tributi che ha saputo immaginare, è reale il rischio che in capo ai singoli soggetti la tassazione complessiva, tra imposte dirette ed indirette, ecceda l’intera ricchezza prodotta. In tal caso l’amministrazione finanziaria non tassa più il reddito, lo confisca.

Nessun balzello è autonomamente sufficiente a sottrarre al cittadino la totalità delle sue risorse di periodo, ma la somma di tutti i tributi può condurre all’integrale sequestro della capacità economica individuale.

In tale circostanza lo Stato Leviatano non si accontenta di esigere dal cittadino la sua attitudine al tributo, ma pretende l’intera ricchezza personale. Le spese pubbliche attraggono a tassazione tutta la forza economica del contribuente e, talvolta, qualcosa in più. In tal caso il paradosso costituzionale è chiaro. L’imposizione famelica deve però cessare, pena la desertificazione del sistema economico ed il sacrificio della Costituzione. Nessun uomo libero lavora e produce per la confisca integrale del proprio reddito e quando ciò accade il sistema di mercato vira verso un’economia basata sulla schiavitù. Ed allora ? Ed allora siamo tutti diversamente liberi di fronte allo Stato ed all’erario giannizzero che lo sfama.

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