A questo punto della corsa alla nomination per la Presidenza americana s’iniziano a delineare più o meno nitidamente gli equilibri politici dei due schieramenti, più volte ribaltati ed imprevedibili fino a pochi giorni fa anche per i più accreditati analisti.
Sia a destra che a sinistra è possibile identificare una manovra di sfida ai rispettivi establishment tradizionali, dinamiche politiche ben note all’opinione pubblica europea ed in particolare italiana, assolutamente inedite per lo scenario americano. Infatti fino ad ora non si erano ancora rilevati, nella politica americana, movimenti populistici e/o di protesta degni di nota, in un Paese dove il sistema democratico è ad un livello di solidità e di riconoscimento assolutamente inarrivabile per qualsiasi altra democrazia. Un sistema che ormai regge da quasi 250 anni e che ha superato una guerra civile, due guerre mondiali, varie crisi economiche, l’ultima, la più devastante dopo quella del ’29, solo pochi anni fa.
Questa sua incredibile forza deriva senza dubbio dalla cosiddetta “eccezionalità americana”, come la definiva Samuel Huntington, cioè a dire quella particolarissima situazione di partenza in cui si sviluppò la società americana, una situazione non replicabile in nessun’altra parte del globo, caratterizzata da una inesistente presenza di classi sociali, dove i cittadini condividevano in gran parte stili di vita, principi, valori. Grazie a questa coesione sociale si è garantita l’efficienza e l’incredibile progresso che ha caratterizzato profondamente la storia del secolo scorso. Certo, ci sono stati periodi di prolungate tensioni sociali, espresse sopratutto nel grande movimento di emancipazione per i diritti civili della comunità afroamericana e nel movimento femminista, ma nonostante questo la stabilità politica è sempre stata presente in tutta la sua solidità, superando brillantemente ogni momento critico, ogni possibile crisi strutturale. La grande coesione materiale ed intellettuale della società americana ha generato fin dai primissimi passaggi un sistema istituzionale altamente equilibrato e sorprendentemente snello, basato su una Costituzione che, a differenza di molte altre, ancora oggi regge con brillantezza l’ardua prova del tempo. Difatti, ad un potere esecutivo stabile si è affiancato un sistema di pesi e contrappesi altrettanto misurati e precisi, a partire dalla Corte Suprema, nominata a vita e totalmente indipendente.
Ma allora perché in queste Primarie il livello del dibattito politico è scaduto spesso in toni assolutamente non convenzionali, preoccupanti ed aggressivi, soprattutto nella patria del politically correct?
In un ottica generale, è evidente come il declino della civiltà occidentale stia avendo ripercussioni sulle nostre democrazie. La comparsa di nuovi importanti attori sulla scena internazionale ci contendono la supremazia economica e culturale che, dopo la caduta del Muro di Berlino, sembrava saldamente nelle nostre mani. Ovvio che questa dinamica abbia importanti conseguenze negli Stati Uniti, da sempre celebrati, e a ragione, come guida ed esempio più nitido del successo occidentale. Le ripercussioni di tutto ciò si sono già da tempo manifestate in Europa, dove la globalizzazione e la crisi finanziaria ha messo a dura prova la nostra economia, affiancandosi a fattori tipicamente endogeni come i dubbi sulla tenuta politica e monetaria dell’Unione Europea. In USA invece la lunga presidenza di Obama, particolarmente gradita dalle minoranze, ha fatto da freno allo scatenarsi del populismo e della rabbia, rimediando abbastanza rapidamente ad una crisi economica che poteva risultare molto più dura e lunga. Escludendo le discrete, ma non ancora sufficienti, politiche monetarie e fiscali, la presidenza Obama era motivo di grande speranza per una larga fetta dell’elettorato americano, speranze assolutamente disattese da un Presidente rivelatosi eccessivamente timido in molti campi ma soprattutto in politica estera, dove ha contribuito a quella decadenza geopolitica e culturale a cui si accennava prima.
La delusione e il risentimento sono esplosi quindi in tutta la loro forza in questa tornata elettorale: Trump da una parte e Sanders dall’altra lanciano una precisa sfida allo status quo dei rispettivi partiti politici. L’eccentrico magnate dal marmoreo ciuffo biondo domina ormai, con la sua violenta dialettica, ogni network e blog del Paese. Non importa se i giudizi espressi dai media su di lui siano positivi o negativi: come ogni grande personaggio mediatico, si alimenta della pubblicità in ogni caso, negativa o positiva che possa essere. Evidente anche come tutto questo sia una precisa e furbissima strategia di marketing elettorale, dove la corsa alla sparata più grande diventa arma affilatissima e molto efficace per la conquista del consenso di quell’America “profonda” carica di rancore e risentimento. Sanders dall’altra parte gioca una partita simile, dai toni molto meno accesi ma molto più pericolosa. Il navigato politico del Vermont è infatti l’unico nella storia delle corse alle nomination per la Presidenza ad essersi espressamente dichiarato socialista, fatto preoccupante oltre che inedito, segno della presenza di una sinistra più a sinistra del Partito Democratico, rinvigorita dalla crisi economica, pronta a mettere in discussione quei valori liberali e quel sistema capitalistico che hanno costruito il successo degli Stati Uniti d’America. Lo scenario che si apre di fronte al Paese non è quindi entusiasmante, con un Trump praticamente già vincente alla Convention ed un Sanders che sta ottenendo vittorie inaspettate, non tali da mettere in crisi la Clinton ma comunque abbastanza influenti da costringerla a spostare il proprio baricentro a sinistra.
L’elettorato americano è quindi di fronte ad un bivio: mettere da parte la paura e la demagogia oppure lasciarsi risucchiare nella spirale negativa e declinante che ha avvolto e che continua ad avvolgere la politica occidentale da troppi anni a questa parte.
