
Le considerazioni da fare in merito al referendum del prossimo autunno sulla legge di riforma della nostra Costituzione sono in primo luogo di carattere politico. E attengono alla necessità di preservare nel nostro Paese le condizioni necessarie per la buona salute della nostra democrazia. C’è bisogno di mantenere un corretto e non sbilanciato equilibrio tra metodo di votazione alle consultazioni elettorali, principio di rappresentatività ed esigenza di governabilità del Paese.
Circa i metodi per portare rappresentanti del popolo in una camera legislativa non c’è dubbio che la scelta tra sistema proporzionale e maggioritario è pienamente legittima, tanto è vero che nella nostra Carta fondamentale v’è traccia, sia pure non esplicita, di entrambi i sistemi.
Diversa cosa è, invece, adottare il sistema proporzionale ed escogitare marchingegni per dare il governo del Paese a chi ottiene solo la maggioranza relativa e non quella assoluta del cinquanta più uno per cento dei voti.
In questo caso non si tratta di scegliere un metodo di votazione, dando la palma a quello maggioritario, ma di alterare il principio di massima rappresentatività che è proprio del sistema proporzionale per raggiungere il risultato della governabilità in aperto spreto a esso.
In altre parole, si può adottare un sistema maggioritario di votazione e raggiungere il risultato che, in un modo o nell’altro, una determinata forza politica raggiunga in Parlamento la maggioranza assoluta degli eletti e governi. E ciò anche se la forza vincente, sommando i voti ottenuti, non è quella maggioritaria nel Paese. L’importante è che in Parlamento abbia la maggioranza assoluta per governare.
Ciò che si deve evitare è che una forza risultante minoritaria per il numero di voti ottenuto rispetto a un’opposizione ben più consistente numericamente in termini di consenso raggiunto ottenga in Parlamento un surplus di rappresentanti eletti.
Ciò è in aperta contraddizione con la volontà popolare e un governo dei pochi rispetto a un’opposizione dei molti non è l’immagine più rispondente al concetto non solo di democrazia ma di civile convivenza, pace e tranquillità sociale.
La maggioranza, in buona sostanza, per essere legittimata a governare dev’essere superiore all’insieme di tutte le altre parti presenti in Parlamento, cioè assoluta, senza che tale condizione le sia offerta in modo artificioso dalla legge.
Quando si lascia governare, per effetto di un espediente di sospetta legittimità costituzionale, una forza politica che in pratica è stata subissata da una valanga di no oltre che di schede bianche o nulle, non si rende un buon servigio alla fiducia che i cittadini devono avere nelle Istituzioni.
Il problema più vero e drammatico delle odierne società democratiche è che la gente non va a votare. Specialmente in Italia la democrazia rappresentativa è giunta al punto più basso della sua ormai lunga storia di discesa.
Siamo in caduta libera e vantiamo, per giunta, il triste record che spesso l’invito a non recarsi alle urne perviene ai cittadini per il tramite di espliciti messaggi in tal senso di autorevoli rappresentanti delle Istituzioni.
Se un tale invito dovesse anche soltanto implicitamente valere per la prossima consultazione referendaria d’autunno, per la quale non è richiesto alcun quorum, ciò equivarrebbe al tentativo di voler frantumare il fronte del no, non essendovi alcun dubbio che quello del si andrebbe compatto a votare; almeno nelle speranze dei riformatori.
Accettare l’invito di non andare a votare equivarrebbe solo a coprire la propria codardia.
Chi non vuole esporsi a dire a chiare lettere che quella riforma s’ha da fare, non va a votare e spera che essa, comunque, passi, a dispetto delle perplessità che ingenera e che sono di varia natura.
E il modo pur m’offende! La consultazione referendaria sulla riforma costituzionale, approvata da un Parlamento eletto con un sistema di votazione maggioritario, di per sé non rappresentativo dell’intero corpo elettorale italiano e per giunta dichiarato illegittimo da una sentenza della Corte Costituzionale, massimo organo di garanzia del nostro ordinamento giuridico e democratico, impone un’auspicabile mobilitazione per una vittoria del no.
Chi scrive non ignora che una riforma della nostra Costituzione sia necessaria e doverosa, in un momento in cui il Paese sta trasformando la propria società da industriale a post-industriale o dei servizi.
Sa bene che i manufatti della nostra industria, nel mondo che cambia, diventano sempre meno competitivi e che c’è bisogno o di portarli a un livello di eccellenza che li faccia preferire ad altri della stessa specie, prodotti in zone dove il costo di realizzazione è, alo stato attuale, più basso, o di sostituirli progressivamente da un lato con la produzione di beni immateriali, utilizzando l’elettronica, il digitale e ogni altra immaginabile forma di alta tecnologia ovvero con l’offerta di servizi di varia natura: da quelli bancari, creditizi, assicurativi, informatici o d’informazione, da rafforzare e potenziare a quelli turistici e culturali, da svincolare dalla camicia di Nesso posta loro proprio da talune, inadeguate norme della nostra Carta fondamentale.
Intende ricordare, però, che, come la Costituzione fu egregiamente predisposta dai nostri Costituenti per favorire il passaggio della società italiana da prevalentemente agricola a robustamente industriale, così oggi, per un’altra, anche più rilevante ed epocale, trasformazione di essa, sia necessario, ripercorrere la strada felicemente tracciata dai Padri fondatori della Repubblica: chiamare al voto tutti gli Italiani per l’elezione su basi proporzionali di un Parlamento altamente rappresentativo di tutte le forze politiche in campo che sia in grado di esprimere altresì una nuova Assemblea Costituente.
La riforma della Costituzione non può essere espressione di una maggioranza formale che è minoranza sostanziale nel Paese né può essere frutto di pur volenterose improvvisazioni in aule rissose e sottoposte a continui cambi di schieramento dei rappresentanti eletti.
In Italia, più che nel resto dell’Europa continentale, la polemica politica ha sempre avuto come protagonisti indiscussi tre assolutismi, con tendenza, come tali, all’autoritarismo: quello religioso, cattolico e quelli filosofici, prodotti dall’idealismo tedesco, nelle due versioni politiche, del fascismo e del comunismo.
Anche il liberalismo ha avuto sullo Stivale una sua connotazione molto particolare. Tale dottrina politica, alimentata nei Paesi anglosassoni dall’empirismo, dal pragmatismo e da una sostanziale laicità, è stata covata, nel Bel Paese nell’alveo dell’idealismo tedesco dai suoi maggiori teorici, inclini, peraltro, a benevolenza verso il verbo cristiano.
Tutto ciò ha comportato, per effetto dell’assolutismo delle posizioni ideologiche, una durezza degli scontri nella lotta politica, difficilmente riscontrabile in altri Paesi. Inoltre, a causa dell’autoritarismo sempre sotto traccia ma presente in quelle stesse forze politiche, ha indotto i leader politici, premiati da un consenso popolare, genuino o artificioso, a non mollare il potere di governo del Bel Paese una volta conquistato.
La fantasia italiana per non lasciare la presa non ha avuto limiti.
Gli espedienti di vario tipo inventati sono stati molteplici e hanno spaziato dal trasformismo (con mercimonio di voti) alla conventio ad excludendum, dalla configurazione di un cosiddetto arco costituzionale alla trasformazione di una minoranza agguerrita in maggioranza assoluta con marchingegni elettorali, vanamente dichiarati costituzionalmente illegittimi dall’organo di garanzia a ciò deputato.
Oggi, anche a giudizio dei più insigni politologi, il quadro sembra radicalmente mutato.
La secolarizzazione della religione cattolica ha smussato le punte più integraliste e intransigenti del partito d’ispirazione cristiana e il crollo, nel secolo breve, delle due ideologie politiche, figlie dell’idealismo tedesco, ha ridotto all’impotenza operativa fascismo e comunismo.
La rovinosa sconfitta nella seconda guerra mondiale ha paralizzato l’espansione del nazi-fascismo; la caduta altrettanto catastrofica dell’impero sovietico, dopo la guerra fredda vittoriosamente condotta dall’Occidente, ha escluso che ilbolscevismo e il comunismo potessero ancora rappresentare una minaccia per la libertà nel mondo democratico.
Tutto ciò, però, in Italia, anzi che favorire la nascita di un pensiero finalmente libero, indipendente, autonomo dall’ipoteca di verità rivelate o dedotte da apriorismi filosofici, empirista, pragmatico, coerente con le conquiste laiche dell’astrofisica e della bio-genetica, ha creato le condizioni ottimali per il sorgere di molti e variegati populismi, tutti generici, ondivaghi, confusi, babelici, disorientati e sconcertanti.
Ai pensieri unici delle forze politiche della prima repubblica italiana con programmi, di tipo religioso o filosofico, tra di loro diversi, spesso contrapposti ma ritenuti da uomini di fede e fanatici dell’idea ugualmente salvifici per l’umanità, si è andato sostituendo l’anelito dei leader a coagulare le credenze di un tempo, oggi abbondantemente annacquate, in movimenti che riconoscano nel popolo l’unico aggregato sociale, autentico, omogeneo che possa ritenersi depositario esclusivo dei valori positivi, specifici e permanenti di una data collettività organizzata.
I vari populismi in lizza, dichiaratamente di sinistra, di centro o di destra, sembrano ora anch’essi in via di sfaldamento. Si va facendo strada un tipo molto particolare di populismo che ha il suo antecedente storico in Argentina: il peronismo all’italiana.
Il leader che lo capeggia ambisce a riunire in un partito unico un conglomerato di cattolici, comunisti e fascisti, oltre che di liberali di matrice assolutistica perché idealistica, d’inedito assembramento, capace di assumere, di volta in volta, connotati prevalenti diversi, secondo le circostanze.
Le caratteristiche del movimento ricalcano le linee di un populismo di ben altra natura e di ben più alta e aulica sede, oggi sostanzialmente praticato a dichiarato beneficio di tutte le genti che soffrono sul Pianeta.
Questa forma di peronismo all’italiana si discosta solo per particolari e non molto significativi aspetti da quello argentino. Come quello aveva unito alle originarie tendenze destrorse del dittatore il successivo sinistrismo, più cattolico che marxista, della “buona e pia” Evita, così il nostro tende a stringere in un solo abbraccio tutti gli assolutismi, mitigati e mitridizzati, della civiltà italica e occidentale continentale: cattolicesimo, comunismo, fascismo e liberalismo d’impronta filosofica idealistica.
Inoltre:
1) Punta a recuperare, mutuandola dal fascismo, l’idea della Nazione ma la spoglia del dogmatismo e della sacertà che le attribuivano i vecchi partiti del secolo breve per proporla come simbolo di unità sotto cui raccogliere tutto il popolo italiano in un ideale, unico partito, che si spera possa governare per tempi lunghissimi, favorito dall’assenza di una reale opposizione.
2) Mitiga l’autoritarismo pomposo e altezzoso dei tiranni tradizionali di destra o di sinistra e del loro seguito appariscente di gerarchi o di esponenti della Nomenklatura, e lo sostituisce abilmente con gesti di quotidiana semplicità e di bonaria complicità con gli uomini-massa, di cui si assumono le movenze da caffè e circoli ricreativi paesani (lo scontro finto-rude dei palmi della mano che s’incontrano con energia, in una sorta di simbolico, reciproco schiaffetto, tiene luogo del braccio proteso in avanti o del pugno minacciosamente chiuso).
3) Cancella il virilismo impettito e il sostanziale, anche se ben celato, orientamento in buona sostanza misogino dei dittatori del passato per fare ampio spazio nei vertici del potere, a fini di seduzione collettiva e sull’esempio di Evita, a donne possibilmente di bella presenza fisica e dotate augurabilmente di forte carisma personale.
4) Condivide la vaghezza, l’ambiguità, l’indefinibilità e l’imprecisione delle linee di governo del populismo di vecchia maniera ma si avvale di messaggi propagandistici di mediocre fattura intellettuale e di straordinaria penetrazione nelle fasce più modeste e meno colte della popolazione.
5) Utilizza la RAI ben più potente, tecnologicamente più evoluta e soprattutto più capillarmente diffusa dell’EIAR, come strumento di esclusiva comunicazione e pertinenza del Governo, avvalendosi, per il resto, dei noti vantaggi del consueto servilismo dei mass-media quando una forza politica diventa o appare indiscutibilmente egemone.
6) Rifiuta la varietà di definizioni del vecchio populismo di sinistra, di cui pure fa oggettivamente continua a far parte parte, sia pure in modo parziale; ne critica, in primo luogo, la sottolineatura nelle denominazioni ufficiali della parola pueblo, anche nella dizione greca di Demos (democrazia, democratico) perché darebbe una visione di classe riduttiva rispetto all’idea di popolazione totale che condivide le idee del leader e lo segue nella sua missione di governo del Paese; perché richiama, implicitamente, alla mente le forze sindacali cadute in forte disgrazia per le malefatte loro attribuite, in modo quasi unanime, dai mass-media.
7) Nega che il pueblo possa costituire la base di elaborazioni concettuali del fenomeno populistico che non appaia ambigua, equivoca e controproducente. Il popolo può e deve servire soltanto come elemento propagandistico del leader che senza doverlo dimostrare, può apoditticamente sostenere di avere una relazione, magica e diretta, con esso (che è, quindi, inteso liricamente, romanticamente, emotivamente come Mito) e di esserne l’unico in grado di esprimerne la volontà.
8) Qualifica, per la loro vaghezza terminologica, populisti in senso dispregiativo tutti i leader politici dell’Italia dei nostri giorni. Essi non avrebbero altra idea se non quella certamente di comodo di contrapporsi in modo frontale e accanito a dottrine che continuano in modo imperterrito ad attribuire ai loro avversari (siete comunisti, siete fascisti!) anche dopo che la storia ne ha fatto giustizia e i loro obiettivi sarebbero in grande prevalenza distruttivi.
9) Accetta che gli obiettivi della sua lotta risentano della stessa indeterminatezza dei populismi, per così dire, ordinari e parla costantemente di pretesi e indimostrati suoi attacchi alle élite, plutocratiche o imperialiste, ma anche di critiche feroci, più verificabili, al classismo esasperato delle masse popolari, favorito da organizzazioni politiche e sindacali non in linea con i tempi del cambiamento.
10) Esalta i dati positivi che, sulla base di sondaggi, ritiene condivisi dalla massa e li desume, in piena libertà, da tutte le ideologie che rientrano nel patrimonio delle forze politiche che prima si scontravano tra di loro (id est: cattolicesimo, comunismo, fascismo e liberalismo)
11) Da’ attenzione ai meno abbienti come gli ex comunisti ma anche all’orgoglio nazionalistico proprio degli ex fascisti; al liberalismo dei grandi Paesi-guida del mondo ma anche la caritatevole concessione di bonus e aiuti a pioggia della vecchia politica democristiana, maturata sull’esempio delle opere pie e di beneficenza, ecclesiastiche.
12) Ritiene di avere davanti a sé un futuro radioso e duraturo proprio a causa della caduta delle certezze assiomatiche, religiose o filosofiche, dimostratesi irrealizzabili nel secolo breve, ma utilizzate ancora a piene mani quando ritenute di sostegno alla propria azione. L’associazione dell’amore per il pueblo con l’orgoglio della nacion ne costituisce l’esempio più luminoso.
E’ probabile che persino il disimpegno dei cittadini torni gradito agli aspiranti peronisti all’italiana.
Un astensionismo dal voto sempre più marcato potrebbe costituire la premessa necessaria per l’addio alla mai veramente compiuta democrazia nel Bel Paese.
E’ difficile dire se la riforma costituzionale varata e sottoposta a referendum possa favorire la nascita di un Partito della Nacion di tipo sudamericano in luogo dell’italiano Partito Democratico (id est: Partito del Pueblo, per restare nella dizione spagnola).
Nel dubbio c’è chi ritiene che sia meglio non rischiare e votare un chiaro e netto no alla consultazione d’Autunno.
L’Italia sembra giunta a una vera e propria sud-americanizzazione della vita politica che postula la necessità di ferme prese di posizione contro l’astensionismo.
