Il canone di abbonamento al servizio radio televisivo ha fatto e fa discutere di se. Il recente addebito in bolletta è poi cosa malfatta, ma purtroppo legale. È stato infatti deciso con norma ordinaria, la legge di Stabilità 2016, dunque possibile. Se poi ci chiediamo se sia opportuno, risponderei che è opportuno quanto attaccare un chiodo con la scarpa. La bolletta è uno strumento atto a far altro.
Oltretutto l’addebito in bolletta è mal coordinato con l’ordinamento tributario perché Acea ed Enel non sono concessionari della riscossione. Ciononostante è fra le innumerevoli facoltà del legislatore ordinario far riscuotere il canone Rai a chi voglia.
In realtà limiti del canone Rai sono altrove e sono ben più profondi, ma per supina abitudine sono divenuti invisibili agli occhi di tecnici e contribuenti. Il canone è infatti uno strano tributo, fragile per Costituzione.
Il presupposto di imposta è disciplinato dall’art. 1 della Regio Decreto Legge 246 del 21 febbraio 1938 che testualmente dispone:
“Chiunque detenga uno o più apparecchi atti od adattabili alla ricezione delle radioaudizioni è obbligato al pagamento del canone di abbonamento, giusta le norme di cui al presente decreto.”
Il canone Rai ha dunque origine da un decreto legge che poteva essere emanato dal Governo solo in casi straordinari di necessità e d’urgenza. Ebbene, non è dato comprendere quali potessero essere al tempo i casi straordinari di necessità ed urgenza che hanno legittimato il ricorso un decreto legge e si profila il rischio che, per quasi 80 anni, i contribuenti abbiano pagato un tributo incostituzionale sin dalla sua istituzione.
A dire il vero per lungo tempo si è discusso della natura tributaria o sinallagmatica del canone di abbonamento al servizio radio televisivo. Il che per certi versi è stato salvifico per la Rai, perché l’introduzione di imposte con decreto legge fa costituzionalmente orrore[1].
In realtà, per buona sorte della televisione di Stato, il canone ha per lungo tempo goduto della schermatura giuridica e sociale che gli garantiva la sua presunta natura contrattuale. L’abbonamento è stato a-tecnicamente percepito quale il corrispettivo dovuto per visionare la programmazione Rai ed ormai gli spettatori sono abituati ad essere identificati quali “abbonati Rai” e non come contribuenti. Per conseguenza dei fatti, l’incostituzionalità del canone è in tranquilla cova sotto la cenere da anni, invisibile ai più.
Se però fosse davvero un corrispettivo, il canone non sarebbe dovuto da chi non usufruisce del servizio Rai, o per scelta, o perché ricade in una zona d’ombra. Dunque, nell’imperativo categorico di salvaguardare le finanze televisive, la Corte di Cassazione di è affrettata ad insegnare che:
“Il canone radiotelevisivo ha natura di imposta ed il suo presupposto va ravvisato nella mera detenzione di un apparecchio astrattamente idoneo a captare l’emittenza televisiva, quale che sia la natura giuridica del soggetto emittente. Pertanto, i contribuenti non possono esimersi dall’obbligo di pagamento del canone per il fatto di abitare una cosiddetta “zona d’ombra“, non coperta dalle trasmissioni del servizio pubblico.” – Sent. n. 8549 del 3 agosto 1993 (ud. dell’11 giugno 1993) della Corte Cass., Sez. I civ. – Pres. Borré, Rel. Bibolini. Ormai è dunque chiaro, il canone Rai è un’imposta. E’ un principio di diritto fortemente voluto, ma in virtù del quale il sistema di finanziamento pubblico della radio televisione italiana si avvita su se stesso. Le criticità che derivano dalla natura fiscale del canone sono probabilmente insormontabili, quindi la strategia è sempre stata quella di dimenticarle. Per punti:
A) Le trasmissioni televisive prendono vita nel 1954, il canone è istituito 16 anni prima, nel 1938. Eppure il canone Rai è stato introdotto con decreto legge senza che fosse evidente quale fosse al tempo la straordinaria necessità e urgenza. Il canone è dunque negletto sia in relazione all’articolo 77 della Costituzione sia in relazione al principio di diritto che vieta l’introduzione di nuovi tributi con decreto legge, articolo 4 della L. 212/00.
B) Il canone di abbonamento al servizio pubblico radio televisivo è assoggettato a iva. Ma se il presupposto dell’iva sono “cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese o nell’esercizio di arti e professioni” – art. 1 dpr 633/72 – come è possibile applicarla al canone senza ammettere la natura di corrispettivo del canone stesso. Delle due l’una. Se il canone è una imposta, l’assoggettamento ad iva è del tutto insensato ed asistematico. Se per contro l’iva sul canone è legittima, il canone stesso non può essere un tributo, ma è il corrispettivo per una prestazione di servizi. Non c’è una terza via.
C) A ben vedere il canone di abbonamento al servizio pubblico radiotelevisivo è dovuto in occorrenza con la detenzione di un apparecchio atto alla ricezione delle radioaudizioni. L’imposta è dunque collegata al possesso di un bene e sembra essere, per conseguenza, patrimoniale. Tale inquadramento del canone si rafforza poi contestualizzando la norma al tempo della sua emanazione. Agli albori della Rai, nel 1954, il possesso di un televisore era effettivamente un indice di ricchezza. In Italia esistevano circa quindicimila televisori il cui costo oscillava tra 160 mila lire e 1 milione e 300 mila lire quando il reddito medio pro-capite annuo era di 258 mila lire ed il primo canone di abbonamento era di 15 mila lire. Numeri alla mano si comprende come al tempo la televisione era una concreta manifestazione di ricchezza, dunque possederne una costituiva per certo una declinazione della capacità contributiva. Decenni dopo le accelerazioni tecnologiche e produttive hanno reso il canone obsoleto e paradossale. Possedere un televisore non è più una apprezzabile dimostrazione di ricchezza. Il canone ammonta a 100 euro annui e l’obbligo fiscale di corrisponderlo si innesca anche comprando un apparecchio di infimo valore. Esistono ormai televisori di scarso pregio, minima dimensione e che non arrivano a costare 100 euro. Che rigore costituzionale può avere un’imposta che in casi limite eccede anno per anno il valore del suo presupposto? Un canone da 100 euro annui può essere la conseguenza tributaria dell’acquisto di un televisore da poche decine di euro? E’ insensato come lo sarebbe un’aliquota IRPEF del 200 % del reddito.
Sembra ormai del tutto evidente che il canone di abbonamento al servizio pubblico radio televisivo ha fatto il suo tempo ed è ora che esca di scena con discrezione per far posto ad un tributo ingegnerizzato secondo Costituzione o, meglio, per chiamare la Rai ad una maturità economica ed industriale che le consenta di andare in onda senza gravare i contribuenti di un’imposta in più a cui, francamente, rinunceremmo alquanto volentieri.
[1] Ai sensi dell’art. 4 dello statuto del contribuente, L. 212/00:
“Non si può disporre con decreto-legge l’istituzione di nuovi tributi né prevedere l’applicazione di tributi esistenti ad altre categorie di soggetti.”
In vero le norme in esso sancite dallo Statuto del contribuente “costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario” e sono emanati “in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione” – Art.1 L. 212/00. Lo statuto del contribuente è dunque regola paracostituzionale e i principi di diritto che formalizza devono essere considerati costituzionalmente immanenti nell’ordinamento giuridico nazionale. Se tale è il disposto paracostituzionale, se il principio che detta norma sottende è immanente nell’ordinamento sin dalla carta costituzionale, è allora opportuno mantenere in vigore un’imposta istituita per decreto legge ?
