La vicenda Lactalis-Parmalat rappresenta l’ultimo, ma non l’unico, esempio di come la politica economica del Governo sia influenzata da derive colbertiste. Il tentativo di scalata compiuto dall’«emiro dell’oro bianco» Emmanuel Bensier (presidente del colosso francese) non è stato visto di buon occhio dalle nostre parti. L’atavica apprensione verso le possibili mire colonizzatrici dei cugini d’oltralpe, ha indotto il Consiglio dei Ministri ad approvare il “decreto anti-scalate”. Un provvedimento volto a difendere le società d’interesse nazionale dai takeover di imprese straniere.
Nell’era della globalizzazione, però, il protezionismo assume la stessa valenza “difensiva” dei rudimentali scudi che i Pellerossa utilizzavano contro le armi da fuoco del generale Custer.
Ciò detto, ha senso preoccuparsi di quale sia la nazionalità dell’azionista di maggioranza? O è meglio concentrarsi sulle opportunità occupazionali di cui potrebbero beneficiare i lavoratori italiani?
In questo caso i precedenti giocano a favore di Lactalis. Da quando nel 2007 il pacchetto di controllo della Galbani è passato nelle mani del gruppo transalpino, quest’ultima ha fatto registrare un incremento costante di fatturato e profitti, oltre che di quota di mercato estero.
Che cosa accadrà dunque alla Parmalat? Se l’OPA lanciata dovesse avere esito positivo, il gruppo italo-francese sarebbe in grado di realizzare un giro d’affari stimato in circa 14 mld di euro, diventando il primo player mondiale nei prodotti lattiero-caseari.
Sarebbe forse meglio non opporsi al deal per ottusa partigianeria, dimenticando che la gestione made-in-italy di Tanzi ha prodotto il più grande scandalo di bancarotta fraudolenta e aggiotaggio perpetrato da una società privata in Europa.
La sfida della globalizzazione può essere affrontata in due modi: accettando la competizione (attrezzandosi per rendere attrattivo il sistema-paese) oppure rifiutandola e così uscire inevitabilmente dal mercato.
Le motivazioni che rendono auspicabile l’adozione della prima fra le alternative prospettate sono facilmente intuibili. In tal senso, la biologia può essere assunta come un terreno metaforico utile all’interpretazione delle fenomenologie sociali (in particolare economiche). Il concetto di “ecosistema” nasce, infatti, dall’osservazione che nessun essere può sopravvivere indefinitamente in isolamento. L’assenza di scambio fra organismi biologici impedisce la variabilità e (in ultima analisi) l’evoluzione, conducendo a un lento ma inesorabile deterioramento che culmina con l’estinzione.
Per non fare la fine dei dinosauri, l’agenda di Governo andrebbe orientata al tentativo di rendere competitivo il nostro paese, intervenendo su tre grandi temi: burocrazia, certezza del diritto e pressione fiscale in capo alle imprese. La partita va giocata sullo scacchiere internazionale e vinta puntando sull’attrattività rispetto agli investimenti di capitali esteri.
Ecco perché non sempre è il caso di mormorare «non passa lo straniero»!

Non voglio fare il guastafeste, però vorrei porre l’attenzione su alcuni punti che forse sono sfuggiti all’articolista. I cugini d’oltralpe hanno più volte attuato il protezionismo e proprio a svantaggio di aziende italiane. L’acquisto di aziende italiane da parte di società straniere può voler dire, spostare stabilimenti e lavoratori, dalle attuali sedi ad altre fuori dal territorio nazionale. Pensiamo ad una famiglia con due figli che vanno a scuola e i genitori entrambi lavoratori. Ammesso che ci siano dei vantaggi e degli incentivi per il lavoratore che è trasferito all’estero, cosa accadrà al partner che lavora in Italia? e i figli quale scuola frequenteranno? E le amicizie? Insomma, pensiamo anche a questi risvolti, prima di sentenziare.
Gentile lettore,
l’interattività è uno straordinario strumento che consente di “aprire” l’informazione all’utente. Per questo motivo, un commento puntuale e garbato come il suo non sarà mai ritenuto da “guastafeste”. Detto ciò, ritengo che la sfida della delocalizzazione, cui Lei fa riferimento nel suo commento, si possa vincere solo accettando la competizione intrernazionale e cercando di rendere “conveniente” per le imprese (indipendentemente dalla nazionalità dell’azionista di maggioranza) produrre in Italia. Al contrario, le scelte anticoncorrenziali e protezioniste possono risultare deleterie, rendendo stagnante il nostro sistema economico, ahimè non molto dinamico.
Quanto scritto resta comunque un’opinione che può essere condivisa o meno.