“La democrazia è il Dio che ha fallito” diceva Hans-Hermann Hoppe.
L’ultimo credo, l’ultima immutabile struttura dell’epoca moderna, l’ultima rappresentante di quel Divino che dominò il cielo e la terra ma che oggi si ritrova ucciso e seppellito dall’incessante avanzare dell’individuo. Non è questa la causa del trumpismo, semplice sintomo, seppur vistoso ed eccentrico? Sfiducia, rabbia, paura. Ma soprattutto crisi materiale ed ideologica.
Questa è la società occidentale oggi.
Per gli europei, rassegnati ed impotenti, queste parole sono solo un leitmotiv quasi decennale. Ma per l’americano medio, per l’americano che ha creduto alla favoletta progressista di Obama, che ha creduto alla sempre americanissima retorica del “the Greatest nation on Earth”, il sentimento dominante è la frustrazione. La terribile e fino ad ora sconosciuta sensazione di essere provincia dell’impero. Un impero sempre più liquido, dinamico, aperto, complesso, imperscrutabile nella sua interezza e nel suo essere costitutivamente diveniente. L’evidenza di una globalizzazione non più condotta ma subita. Ed è in questo contesto che si colloca la dialettica anti-establishment, parola che negli ultimi giorni viene ripetuta con molta frequenza ed altrettanta ottusità. Sì, ovviamente, è una dialettica dal target ben preciso e dallo stile comunicativo millimetricamente tarato ad influenzare ed animare quegli istinti repressi da 8 anni di immobilismo. Ma è una dialettica che deve la sua efficacia soprattutto a questa triste, meravigliosa e tremenda verità: “la democrazia è il Dio che ha fallito”.
Lo Stato moderno e liberaldemocratico è al capolinea o quantomeno è in profonda crisi. I meccanismi democratici, indipendentemente dalla preparazione della classe dirigente, sono inadatti a governare questo stato di cose, questa società, questo mondo globalizzato dove il cittadino è abituato ad avere “tutto e subito” dai meccanismi di mercato, dove non c’è più posto per l’inefficienza e la lentezza dello statalismo dirigista, per il consociativismo, per il compromesso continuo a vantaggio dell’oggi, a discapito del domani. La politica non può sopravvivere così com’è.
Le competenze di cui si arroga la gestione, sempre più diffuse e capillari, sono troppo onerose per continuare ad essere sostenute con l’efficienza richiesta dall’ordine materiale esistente. Non è più tollerabile la coercizione implicita nella formazione della maggioranza democratica, non è più sopportabile uno Stato che incatena l’economia, impedendogli di seguire il divenire degli eventi, del progresso, della tecnologia. Non è accettabile l’imposizione tramite legislazione positiva di valori, costumi, culture diverse.
In una società degna di questo nome l’individuo è libero di esprimersi, di agire secondo coscienza e secondo propri valori, di preferire ciò che gli sembra giusto a ciò che non gli sembra tale, nel rispetto dell’eguale libertà altrui.
Avviene questo nella società occidentale? No, evidentemente.
Trump è solo la reazione ad un sistema che gira a vuoto da anni. In ogni caso lo scenario che si apre davanti ai nostri occhi è incerto e potenzialmente colmo di pericoli, come in ogni momento di crisi. Le scelte che farà Trump a livello di prassi politica restano un enigma. Due sono i principali scenari che si potrebbero aprire: nel primo il Presidente eletto, tenendo fede ad alcune delle tante contraddittorie promesse che hanno arricchito la sua retorica elettorale, mette in atto un programma di protezionismo economico ed interventismo statalista. Ciò causerebbe un’ulteriore regressione a livello economico del Paese nel lungo periodo mentre nel breve potrebbe aprire un ciclo di crescita insperata che condurrebbe “The Donald” ad una probabile rielezione tra 4 anni. Nel secondo ed auspicabile scenario invece Trump effettuerebbe una complessa demolizione controllata dell’impianto della pubblica amministrazione americana: shock fiscale grazie ad un deciso taglio delle aliquote ed abbattimento del dannoso welfare obamiano, a partire dal settore sanitario. Ciò causerebbe forti turbolenze nel breve termine ma si risolverebbe in un successo economico e sistemico nel lungo periodo, aumentando però le probabilità di una rapida fine politica per il trumpismo. Unita alla probabile linea isolazionista del tycoon newyorkese, un tale scenario sarebbe una vera svolta decostruttiva in grado di liberare la società civile dalle catene limitanti ed oppressive oggi presenti, consentendo di sprigionare all’ interno del sistema economico fattori produttivi in grado di riportare gli USA sulla cresta dell’onda.
Infatti, nell’ odierno capitalismo della conoscenza, le società occidentali hanno tutte le potenzialità per riprendere a funzionare anche in un contesto sempre più globale e concorrenziale, grazie ad un capitale umano più formato, proporzionalmente più consistente rispetto ai Paesi in via di sviluppo come India e Cina, non temibili in settori ad alta specializzazione.
Trump potrebbe essere l’inizio di un cambio di rotta in grado di sgonfiare nazionalismi e movimenti regressivi, di dettare la linea alla politica europea, di limitare i meccanismi democratici a poche ma definite competenze e di tagliare quei rapporti con la finanza che creano moral hazard, instabilità, presupposti per crisi future.
Comunque, anche se dovesse avverarsi lo scenario peggiore, una presidenza Trump regressiva e protezionistica non farebbe altro che smontare, se non nel breve sicuramente nel lungo termine, i crescenti populismi e nazionalismi occidentali, travolti dall’ inconsistenza e dalla miopia di politiche che la storia ha già ampiamente giudicato fallaci. In tal caso ci si rassegnerebbe ad un lento ed inesorabile declino, senza grillismi ed isterie varie, nel segno di una dolce e autocommiserante eutanasia democratica che lascerebbe spazio ad oscuri ed ancor più imprevedibili scenari.
