Su un punto, anche se uno solo, ha ragione Napolitano: lo scontro tra SI e NO si è fatto aberrante. E’ importante capire il perché.
Da parte dei difensori della riforma, compreso il Presidente emerito della Repubblica, si è tentato di accreditare la tesi falsa che lo scontro era tra innovazione e conservazione. All’opinione pubblica tuttavia è apparso evidente che non qualsiasi cambiamento, anche in peggio, come in questo caso, significa migliorare. Il mantra ripetuto in questi giorni fino alla nausea che da trent’anni si discuterebbe di riformare la Costituzione e che l’occasione che si presenta oggi non si può perdere, si è dimostrato non veritiero. La nostra Carta Fondamentale ha avuto in media un cambiamento ogni due anni, normalmente su questioni precise che lo rendevano opportuno e quindi con largo consenso. Ultimo intervento importante ha riguardato la costituzionalizzazione del principio del pareggio di bilancio allo scopo di contenere la spesa e la tendenza ad aggravare ulteriormente il già enorme debito pubblico. Altre volte la necessaria intesa politica non si è trovata ed il Parlamento ha saggiamente rinunciato, perché le regole si dovrebbero cambiare soltanto con un’ampia maggioranza in cui convergano forze di governo e di opposizione. Nel 2001, contraddicendo a tale rispettosa tradizione, la stessa forza politica oggi guidata da Renzi impose, con quattro voti di margine, una deleteria modifica del titolo quinto, che ha impegnato la Corte Costituzionale in una infinità di conflitti tra Stato e Regioni, mentre oggi il medesimo schieramento vorrebbe cambiare, tornando ad una scelta centralista rafforzata. Nel 2006 poi la maggioranza di centro destra guidata da Berlusconi aveva approvato un’ampia riforma molto simile a quella odierna, anche se nel complesso più coerente, alla quale come liberali ci opponemmo e che gli elettori, con l’apporto determinante del PD, in sede di referendum, bocciarono. Oggi quel medesimo Partito Democratico pretenderebbe di imporre l’approvazione di una sbiadita e pasticciata versione della riforma del centro destra, presentandola come un cambiamento epocale, che modernizzerà le nostre istituzioni. E’ un messaggio ingannevole. Non si tratta di un’occasione imperdibile per il Paese, ma del rischio di un arretramento molto grave sul terreno del doveroso rispetto reciproco tra le forze politiche e delle conseguenti garanzie democratiche. Sono in gioco in realtà due principi: la governabilità e la rappresentatività. Il primo tende a valorizzare il primato del Governo ed auspica sistemi elettorali fortemente maggioritari per rafforzarlo, il secondo il ruolo del Parlamento, espressione della volontà popolare, quale garanzia della separazione e del necessario bilanciamento tra esecutivo e legislativo.
Siamo orgogliosi del ritrovarci inclusi in quella che dispregiativamente è stata qualificata come una “accozzaglia” di cittadini che intendono tenacemente opporsi allo sfregio che un blocco autoritario sta tentando di infliggere alla nostra Carta Costituzionale. Vuol dire che ancora un forte spirito critico ed una voglia di non inginocchiarsi pervade larghi strati della società, pur caratterizzati da ispirazioni culturali diverse ed a volte contrapposte, ma accomunate dalla ferma volontà di difendere le regole della democrazia e del pluralismo, di fronte al pericolo del dominante “pensiero unico”. La libertà democratica, secondo la scuola liberale classica, si fonda sul rispetto della sovranità del popolo nelle sue faconde diversità.Persino l’Agcom, organismo verso il quale non abbiamo mai riposto eccessiva fiducia, ha sanzionato RAI, Mediaset, Sky e La 7 per un eccessivo squilibrio informativo a favore del SI. Purtroppo un provvedimento analogo non è possibile nei confronti dei media su carta stampata, in quanto la legge sulla par condicio non contempla questi ultimi tra i soggetti obbligati. Un noto docente di Scienza della politica, in un recente fondo sul maggiore quotidiano italiano, ha persino avuto l’impudenza di parlare di tentativo di “regicidio”. Sicuramente gli è scappato dalla penna, rivelando di non meritare la fama di maitre a penser, che gli è stata attribuita. Si è rivelato soltanto un modesto cortigiano, come una moltitudine di altri, al servizio del Piccolo Cesare, giustamente definito da un compagno di partito “uno che non ha la statura del leader, ma l’arroganza del capo”. Un uomo solo al comando, circondato da una corte talmente modesta da essere stato costretto ad invadere egli stesso tutti i teleschermi per difendere la sua vergognosa riforma. Tuttavia ha ricevuto il sostegno quasi unanime, come la sua amica Hillary, dei media nazionali ed internazionali, fino alle inopportune recenti sortite del Financial Times e del World street Journal, che hanno imprudentemente e consapevolmente in modo tendenzioso affermato di prevedere, in caso di vittoria del NO, una situazione di instabilità economica per l’Italia ed una sua probabile fuoruscita dall’area dell’Euro. Se poteri planetari con un’influenza così grande e mezzi economici illimitati sostengono con tale vigore un personaggetto della provincia toscana di calibro talmente scadente, sorge naturale la domanda: ma di chi è Renzi? chi ha finanziato in maniera talmente generosa la opulenta, spesso ai limiti della legalità, campagna per il SI? Dove pensa il Capo del Governo di trovare i fiumi di miliardi che ha promesso in questi giorni, insieme al suo compagno di merende Governatore della Campania De Luca, di distribuire al Mezzogiorno per invertire un orientamento finora in netta prevalenza per il NO? Sono domande inquietanti, che autorizzano la diffusa preoccupazione per il futuro della nostra democrazia. Esautorare il Parlamento, creare un Senato domestico di amministratori regionali e sindaci in prevalenza del partito di Governo, creare le condizioni per assicurarsi la maggioranza dei giudici costituzionali e dei membri laici del CSM, rendere di fatto irreversibile l’attuale rovinoso cambiamento della Costituzione, mettere sotto scacco e svuotare i principali poteri del Presidente della Repubblica, insieme ad una legge elettorale, che prevede un Parlamento nella stragrande maggioranza di nominati e con un premio spropositato per la lista vincente al ballottaggio, anche con un limitato consenso del 15 o 20% al primo turno, sono tutti elementi che hanno come obiettivo di espropriare ai cittadini il potere di scegliere liberamente i propri rappresentanti. In nome di una presunta governabilità, si tende a sacrificare il valore, frutto di guerre e rivoluzioni, della rappresentatività del corpo elettorale in seno al Parlamento.
Come la storia ha dimostrato, solo garantendo che la sovranità sia saldamente nelle mani dei cittadini elettori, in una cornice costituzionale che stabilisca rigidamente la divisione ed il bilanciamento dei poteri, si preserva la democrazia liberale, altrimenti si finisce col precipitare inevitabilmente nel buio del populismo e dell’autoritarismo, che sovente sono l’anticamera della tirannide.
