Stiamo attraversando il punto più profondo di  una grave crisi della società italiana, che declina e si consuma da oltre un quarto di secolo per non aver saputo affrontare un cambiamento epocale di vaste dimensioni. Il Paese non è stato in grado di fronteggiare il fenomeno del progressivo dissolvimento della grande impresa privata e, successivamente, l’indebolimento della vasta area delle piccole, medie e micro aziende, che avevano rappresentato il tessuto portante del nostro sistema produttivo. Questo storico fenomeno di trasformazione della economia da postindustriale matura, in nuova società dei servizi, ha investito tutti i Paesi avanzati, che, nella maggior parte, hanno saputo trovare, anche se non sempre con percorsi coerenti, le risposte, adeguando il proprio sistema produttivo. L’Italia, che, oltre all’obbligata trasformazione epocale del sistema, avrebbe dovuto affrontare anche  una altrettanto grave crisi politica ed istituzionale, ha fatto continuare a girare la vecchia macchina novecentesca per inerzia, pur indebolita ed appesantita, senza riuscire a trovare la fantasia per concepire un nuovo modello di sviluppo ed esprimere una qualche personalità che fosse dotata di statura e della necessaria mano ferma per sostenerlo. Questo è dipeso da una contemporanea, ma completa distruzione della classe dirigente politica preesistente, senza che se ne sia generata una nuova, mancando clamorosamente quello che rappresentava un ineludibile appuntamento con la storia per l’intero occidente.

Dopo la tracimazione dei vecchi partiti politici degli anni novanta, non vi è stato il ricambio indispensabile a far emergere una nuova visione ed un ceto politico, sia pure nella necessaria dialettica tra linee diverse, capace di proporre idee, raccogliere il consenso e determinare un nuovo corso nel processo di modernizzazione della società. Al medesimo tempo tutte le strutture pubbliche, gli apparati amministrativi, gli addetti al sostegno dei settori più deboli della società, si sono degradati e disgregati sino ad una sorta di dissolvimento del tessuto connettivo culturale, morale, organizzativo e sociale del Paese. La separazione dei poteri, anziché  orgogliosamente operare nella divisione prevista dalla Costituzione e coralmente insieme nell’interesse della crescita e tenuta della società, ha subito una sorta di fatale attrazione verso il punto di maggior forza. Il potere apparentemente predominante, (di volta in volta, quello giudiziario, quello politico, quello mediatico) ha cercato di mischiarsi con gli altri, in una sorta di pasticcio istituzionale che ha visto, talvolta tutti contro tutti, talaltra il predominio di uno sugli altri, tanto da realizzare, alla fine, una sorta di oscillante omologazione. Il necessario primato della politica si è eclissato per la  incomprensibile, volontaria rinuncia da parte di una classe dirigente, emersa senza un sistema di selezione rigoroso, ma quasi casuale, con un reclutamento tra famigli, opportunisti, analfabeti, passanti. Il timone del Paese è stato consegnato nelle mani di nessuno e, di volta in volta, la magistratura o la finanza, spesso quella internazionale, hanno assunto il ruolo guida, secondo i propri  interessi, ma senza la necessaria visione, che competerebbe soltanto a chi, attraverso la delega popolare, ne abbia la responsabilità  di direzione politica. I partiti sono progressivamente divenuti semplici comitati elettorali o movimenti, che hanno agitato esclusivamente la protesta o il clientelismo, dove si sono incontrati i più disparati interessi, ma ha finito col prevalere l’eterogenesi dei fini in un generale stato di smarrimento. Il potere e la sua gestione hanno preso il posto della visione strategica. Gli stessi Governi sono stati telecomandati ed, a loro volta, hanno condizionato i Parlamenti, attraverso  l’abuso del ricorso ai voti di fiducia a raffica. La crisi economica mondiale ha morso più in profondità che altrove, determinando un diffuso disagio sociale, che si è trasformato in rabbia quando ha colpito anche quei ceti borghesi che, nel precedente quarto di secolo, avevano conosciuto la crescita economica, sociale e culturale, che, improvvisamente impoveriti ed emarginati, hanno reagito e reagiscono rabbiosamente spinti da un desiderio irrefrenabile di distruzione. Ne è  conseguita la scelta suicida di affidarsi a tribuni, agitatori, qualunquisti, populisti di varia estrazione, finendo, nella ricerca di un alibi visibile, con l’ingigantire falsamente la portata sociale del fenomeno dell’immigrazione, strumentalmente additata come il maggiore fattore di disarticolazione della nostra società.

Nonostante  tutti siano privi di idonei progetti di ripresa del Paese, si invocano le elezioni al più presto come una sorta di lavacro purificatore,  ritenendo, in modo nichilista, che tale evento risulterà maggiormente positivo, quanto più avrà capacità distruttiva. È una sorta di invocazione del terremoto per radere al suolo quello che rimane, senza i necessari progetti di ricostruzione, perché mancano del tutto gli architetti e gli urbanisti che possano concepirli ed realizzarli. Le culture politiche, che dovrebbero essere deputate a questa opera di elaborazione di disegni, anche utopici, per recuperare una  indispensabile voglia di futuro, sono state cancellate. Gli stessi partiti hanno nomi di fantasia e si sono perse le tradizionali rappresentanze sociali tra le forze politiche. Persino i corpi intermedi, a partire dai sindacati, hanno smarrito il senso del proprio ruolo e inseguono vecchi riti, rimasticando parole prive di senso, inidonee ad affrontare la sconvolgente novità  della  profonda crisi strutturale del sistema economico e sociale.

Un ritorno in campo della grande tradizione liberale, che si era corroborata nel novecento attraverso la positiva contaminazione con le istanze socialiste e la comprensione di alcuni importanti valori cristiani, viene visto come un pericolo da parte di coloro, che, sovente a sproposito, usano il termine liberale, come un aggettivo che possa andar bene ovunque, cercando di appropriarsene. Manca in effetti la consapevolezza che invece si tratta di un metodo con trecento anni di ininterrotta elaborazione scientifica e culturale, che va interpretato nel suo profondo significato rivoluzionario e riformatore, quindi,  sposandolo come l’unico in grado di cambiare la società per metterla al passo col suo turbolento divenire. Prendere soltanto un brandello del pensiero liberale ed appropriarsene, come è avvenuto negli ultimi anni,  non serve a nulla. È  necessaria invece un profonda rivoluzione liberale con tutta la forza di cambiamento e modernizzazione che essa comporta, assumendone i rischi ed affrontandone i costi sociali. Bisognerebbe cominciare dallo smantellamento della insostenibile spesa clientelare improduttiva, alimentata dalla connivenza con una elefantiasi burocratica, che aggrava ulteriormente un debito pubblico fuori misura.

L’Italia non ha mai avuto una grande tradizione liberale, la cui migliore rappresentanza politica ha governato solo quando, pur sostenuta dall’ideale risorgimentale, il suffragio era ancora limitato. La coraggiosa scelta del liberale Giolitti di introdurre il suffragio universale, intuendone la modernità e la storica necessità, avviò una fase di inevitabile declino per la mancanza di coraggio e di maturità di socialisti e cattolici, che non compresero la portata della gravissima crisi conseguente alla prima guerra mondiale e consegnarono il Paese al fascismo con la sciagurata complicità di un Re nano, sia fisicamente che come statura intellettuale e morale. Pur con l’influenza di personalità come Croce ed Einaudi, nel secondo dopoguerra, il PLI riuscì  ad avere un ruolo sostanzialmente marginale, anche se sovente  non secondario, fino a scomparire dalla rappresentanza parlamentare con l’avvento impetuoso della cosiddetta Seconda Repubblica, che di liberale non ha avuto nulla e nessun rappresentante. Di fronte al drammatico vuoto valoriale di oggi, si sente da più parti la necessità di recuperare nelle Istituzioni la presenza di una autentica componente liberale, sapendo che, di fronte al deserto culturale delle altre forze politiche, nessuna esclusa,  essa comunque sarebbe capace di incidere ben oltre la portata della propria rappresentanza numerica. Bisognerebbe radunare le poche realtà esistenti, ciascuna portatrice della ricchezza delle proprie specificità ed anche di sottili differenze, ma spesso  disperse e smarrite, per fare in modo che si ritrovino in un unico contenitore, per porsi come punto di riferimento di un solido retroterra culturale, di cui si sente la assoluta necessità, all’interno di uno spazio riconosciuto e riconoscibile di provocazione riformatrice. L’Italia ha necessità di abbandonare, insieme  al clientelismo deleterio, il perverso rapporto con il mostro burocratico, i legami con un sottobosco pseudo imprenditoriale, ogni contaminazione con la finanza speculativa, per apparire credibile nella volontà di impegnarsi in una necessaria nuova visione riformatrice e modernizzatrice. La ricetta liberale, che può ancora salvare il Paese, deve respingere i progetti fumosi ed inconsistenti degli ultimi anni, spesi a cercare la conquista del consenso, non la coerenza di un programma realizzabile. È  venuto il tempo delle scelte coraggiose e precise,  spesso impopolari, che certamente comporteranno nemici, anche agguerriti, ma che daranno credibilità ad una coalizione che voglia lanciare l’ambiziosa scommessa di un disegno riformatore coerente e sorretto dalla necessaria base culturale e programmatica.

Il primo obiettivo deve essere quello di promuovere con urgenza un incontro  volto a riunire, in qualunque forma, ma in un unico contenitore federativo, le modeste e sovente litigiose energie liberali, sparse sul territorio, iniziando dal PLI che, a costo dell’isolamento, ha con intransigenza tenuto alta  la bandiera del liberalismo italiano storico. Tale allargamento dell’orizzonte liberal-democratico  è necessario per mettere in campo un comune percorso in tempi brevissimi, visto il rapido precipitare di una situazione, ormai insostenibile. Subito dopo, bisognerà impegnarsi attivamente alla ricostituzione di un’ampia alleanza di centro destra, che non sia una babele di voci diverse, messe insieme occasionalmente in vista di una momentanea utilità elettorale, ma che nasca dalla  convinzione della necessità di lanciare una sfida per il futuro di quell’Italia che non vuole rassegnarsi. È infatti soltanto sul terreno delle idee che le società aperte possono risorgere ed assicurare il trionfo della democrazia e della libertà.

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1 COMMENTO

  1. Condivido pienamente l’obiettivo di riunire le forze liberaldemocratiche per una federazione che porti avanti le istanze di libertà individuale, di recupero dei rivoluzionari valori del Risorgimento, di tutela delle minoranze e delle classi più deboli, dei diritti civili. Per tutti questi obiettivi i liberali sono naturalmente alternativi alla destra e alla sinistra. Non è un lavoro facile, ma la coerenza rigorosa tracciata da Gobetti dovrebbe essere alla base dell’azione liberale.

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