Francesco Verderami sul Corriere della Sera, con uno stimolante fondo, s’interroga ed interroga i lettori sulle assenze dei liberali. La critica dell’autore giustamente si riferisce in modo principale all’area del centro destra. La storia italiana infatti, da oltre un secolo, si è incaricata di dimostrare che non vi è spazio per i liberali a sinistra, dove predominano statalismo e collettivismo e quindi un’istintiva ostilità verso le idee liberali. Ancora più antitetica appare la componente cattolico democratica, che deriva dalla sinistra democristiana, da sempre politicamente filocomunista ed erede del non expedit di Pio lX. A tale gruppo si iscrive l’autoritarismo renziano, che ha tentato di imporre una riforma costituzionale illiberale, fortunatamente respinta dagli italiani ed alla quale i liberali si sono opposti con determinazione, contribuendo al positivo risultato referendario.

Una ulteriore osservazione, che ad un conoscitore della scienza politica come  Verderami non può sfuggire, riguarda la differenza, non modesta, che esiste tra liberalismo e liberismo. Basterebbe ricordare sul punto la vecchia polemica intellettuale fra Croce ed Einaudi, che si concluse con il riconoscimento da parte del grande economista, che il filosofo aveva sostanzialmente ragione. Nel tempo moderno tale divaricazione si è accentuata nelle diversificate posizioni di due pensatori di formazione liberale, John Maynard Keynes da una parte e Milton Friedman dall’altra. Il primo, schierato sul fronte del liberalismo britannico classico, ha sostenuto che non si possa escludere, in determinati momenti o per determinati settori, l’intervento dello Stato con propri capitali per rianimare l’economia ed espandere i consumi, mentre il secondo ha assunto il ruolo di sostenitore di quel turbo liberismo, risultato responsabile della speculazione finanziaria e della conseguente recente drammatica crisi economica mondiale.

Sin dalla fondazione della Repubblica, l’Italia non ha mai avuto un partito che volesse chiamarsi conservatore. La Democrazia Cristiana, che federava diversi orientamenti di pensiero, ha sempre rifiutato di definirsi tale, anche se raccoglieva la maggior parte dei voti di quel mondo. Altrettanto il Partito di Berlusconi, che pure includeva, come la DC, molte componenti diverse, si è  proclamato liberale, mentre semmai era liberista, quindi conservatore, pur registrando i consensi elettorali del vasto mondo liberale, principalmente in nome dell’anticomunismo e dell’antistatalismo.

Oggi, di fronte al dilagare del sovranismo putinista e trumpista, i liberali non possono che ribadire con forza la loro vocazione europeista, nel solco della tradizione del manifesto di Ventotene e ricordando che il Ministro degli Esteri italiano del tempo, Gaetano Martino, fu il vero artefice dei Trattati di Roma, di cui ci accingiamo a festeggiare il sessantesimo anniversario. Se in Francia Martine La Pen dovesse vincere le elezioni rappresenterebbe la fine dell’Unione, che travolgerebbe in una crisi rovinosa rutto il vecchio continente. All stesso pericolo sarebbe esposta l’Italia se dovesse prevalere la irrazionale ventata anti euro e contraria all’UE, pur con tutte le critiche che si possono legittimamente fare ad un’Europa dominata da burocrati e senza più  lo slancio ideale del momento della sua fondazione.

Per molto tempo, ormai un ventennio, abbiamo tenuto in vita, a scopo di testimonianza culturale e morale prima ancora che politica, il Partito Liberale Italiano, nella continuità di una grande storia con radici profonde, che vanno da Cavour a Giolitti, da Gobetti a Malagodi. La esistenza di tale soggetto politico è stata ignorata dai media di sinistra, perché ne erano  gli antagonisti e da quelli di destra per perpetuare la falsa convinzione che un partito padronale e composito come Forza Italia, potesse rappresentare il mondo liberale.

L’emergere di forze qualunquiste, sovraniste ed autoritarie, insieme alla caduta dell’illusione che il Partito berlusconiano potesse rappresentare i valori, le idee, i sentimenti dei liberali, oggi restituisce al PLI il posto che gli compete di casa legittima dei liberali senza altre aggettivazioni e ne postula un ruolo preciso nell’area del Centro, insieme ai cattolici liberali, ai liberalsocialisti ed ai conservatori liberali.

Liberalizzazioni e privatizzazioni per ridurre il debito pubblico, insieme alla riduzione della asfissiante e costosa dittatura burocratica, nonché alla necessaria riduzione di una pressione fiscale espropriativa che produce evasione, sono il nostro orizzonte, insieme ad un rinnovato anelito alla competizione, intesa come stimolo ad investire in cultura ed innovazione, in vista del trentesimo Congresso Nazionale, che si terrà a Roma il 28/29/30 aprile. In tale occasione il PLI intende assumere il ruolo che gli compete nella società italiana in rappresentanza del mondo di partite IVA, imprenditori, commercianti, artigiani e professionisti.

Spero che Francesco Verderami nel suo prossimo articolo, come in genere la stampa indipendente e democratica, vogliano semplicemente informare gli italiani, che ne sono stati tenuti colpevolmente all’oscuro, dell’esistenza del PLI. Come undicimila cittadini romani che, sia pure nel più assordante silenzio mediatico, hanno voluto votare la lista Liberale alle recenti amministrative, sono convinto che molti altri in tutto il Paese, passata la fase deleteria dei partiti fatti in casa ad uso di un padrone o dei partiti populisti ed autoritari, di cui tutti dovremmo avere un infausto ricordo, vorranno riconoscersi nel Partito della libertà, solo che venga compiuto il dovere,  che sarebbe logico in democrazia, di segnalarne l’esistenza. Molti italiani, principalmente tra i più  giovani, sono liberali ed hanno il diritto di sapere che esiste un partito che rigorosamente ne interpreta la tradizione identitaria e ne condivide le aspirazioni e le speranze. Democrazia liberale significa non soltanto il rito periodico del voto, ma il più delicato compito di  informare   correttamente i cittadini  e chiamarli all’attiva partecipazione.

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1 COMMENTO

  1. Mi permetto di dissentire,totalmente,circa la definizione di Keynes,quale liberale britannico classico,attribuibile,per autoriconoscimento,come old whig,invece,al Nobel F.A.v.Hayek,seppur londinese d’adozione. Keynes è un radicale,come i suoi sodali del Circolo di Bloombsury,che ha teorizzato l’indebitamento pubblico nel breve e medio periodo,pregiudicando la possibilità di rimediare allo stesso,nel lungo. Inoltre,lo stesso Lord Keynes ha postulato la piena occupazione,con l’introduzione del lavoro improduttivo e inutile, commissionato dallo Stato,causa,anch’esso di indebitamento,oltre che di assistenzialismo. Quanto a Einaudi,il Presidente,riconoscendo,da sempre,la distinzione concettuale tra liberalismo e liberismo,riteneva il secondo quale naturale e imprescindibile declinazione economica del primo.
    Riguardo alla ritrosia dei partiti italiani a definirsi conservatori,prescindendo,in ogni caso,dai reali principi fondanti,basterebbe la celebre affermazione di Longanesi,unitamente,ad una malintesa,quanto fuorviante accezione di progressismo,causa la perversa concezione gramsciana di egemonia culturale,che ha contraddistinto la sinistra peninsulare,per la quasi totalità di estrazione massimalista. Proprio in questi giorni,l’ equivoco è stato perpetuato sotto forma di microscisma partitico,alimentando,ancora,la confusione nei confronti di una concezione intellettuale,quella progressista,appunto,in realtà,premoderna,rispetto al liberalismo,che, esattamente al contrario,ha introdotto la modernità stessa. La natura premoderna del progressismo si ravvisa nella volontà di ricondurre l’umanità al pensiero unico dominante o egemone,il mainstream,politically correct,finalizzato a rendere neutro ogni fattore peculiare,espungendo qualsiasi capacità di analisi e discernimento,precipitandoci verso la tirannia dell’indistinto,funzionale all’interesse prevalente. Tale è la manifestazione del premoderno nella contemporaneità,riconducibile,in forme diverse,ma assimilabile,nella natura,alle differenti versioni dell’assolutismo,fin dalla più remota antichità. Infine, il modello europeo auspicabile,proprio per fronteggiare,al meglio,riflussi populisti,non è da riscoprire nel Manifesto di Ventotene,prefigurativo di una costruzione indotta,dall’alto,socialisteggiante,ma,all’opposto,con metodo liberale,deve essere identificato dal basso,con rinnovato spirito partecipativo delle diverse nazionalità europee. È,così,da rifuggire un modello di superstato,soggetto pletorico,distante,vivificando,invece,al contempo,le relazioni euroatlantiche,foriere di libertà e prosperità,superando la superficialità di chiusure apparenti,sull’altra sponda oceanica,frutto di semplice tatticismo politico,utile solo a riposizionamenti di sorta. Ho,apertamente,espresso il mio senso critico,fondando sull’opportunità offertami,in senso liberale,nella naturale diversità soggettiva. Grazie.

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