Come era bella negli anni sessanta la partecipazione alla politica dei giovani del liceo e dell’Università, totalizzante, piena di passione, con scontri durissimi, a volte violenti. Si contestavano le generazioni precedenti, si invocava la rivoluzione, si chiedeva spasmodicamente il cambiamento e la modernizzazione, inseguendo utopie, spesso irrealizzabili, ma tutto questo rendeva quelle vite degne di essere intensamente vissute.
L’Italia rialzava appena la testa, dopo la dittatura e la guerra, le scuole e le università erano luoghi dove, insieme alla cultura, fioriva la speranza. Una grande passione politica, anche se sicuramente molto influenzata dalle ideologie, contribuiva a formare le nuove classi dirigenti, soprattutto all’interno degli organismi rappresentativi delle Università ed in seno all’UNURI, che ne raccoglieva l’espressione nazionale. Quella entusiastica esperienza, ha contribuito a formare almeno due o tre generazioni di giovani colti, preparati ed affascinati dai valori della ritrovata democrazia rappresentativa. L’AGI, associazione dei goliardi liberali, nelle elezioni per le rappresentanze negli organismi di ateneo, raccoglieva, in tutte le Università, dal Nord al Sud, una percentuale stabilmente tra un quarto ad un terzo dei consensi. Poi, l’ondata distruttiva del sessantotto diede un primo colpo mortale al principio selettivo della partecipazione responsabile e competitiva, con la deleteria stagione delle assemblee dei collettivi, all’insegna del diciotto politico e della contestazione dell’Accademia, in nome di una piatta società di eguali. La drammatica fase del terrorismo, che fece più proseliti in seno alle università che nelle fabbriche, determinò un ulteriore affievolimento del valore dell’impegno pubblico, inteso nel senso di dovere civico e civile.Tuttavia, anche quei giovani, che seguirono acriticamente il delirante disegno di cattivi maestri e precipitarono in un vortice intriso di odio e violenza, erano motivati da un desiderio di impegno, sia pure rivolto in una direzione sbagliata. La conseguente frustrazione finì col mettere fuori gioco un’intera generazione, precipitata nel dolore del carcere e nell’oblio della droga. La drammatica caduta dei pilastri dello Stato di diritto, sin dagli inizi degli anni novanta, inaugurò la ancor più deleteria stagione del carrierismo personalistico, che avrebbe finito col prevalere, nel corso del successivo ventennio, togliendo ogni sapore romantico ed ideale alla partecipazione ed incidendo profondamente nella trasformazione che spazzò via quel senso di eticità, che precedentemente aveva caratterizzato l’agone politico giovanile. Gli Organismi Rappresentativi furono soppressi, i movimenti giovanili dei partiti si trasformarono in corsie preferenziali per carriere politiche, abbandonando progressivamente quel tratto, prevalentemente culturale, che ne aveva fatto in precedenza luoghi di formazione della qualificata classe dirigente del dopoguerra, resasi protagonista del grande miracolo economico italiano. La ripetizione di slogan e formule stereotipate finirono col predominare rispetto al desiderio di leggere, capire, confrontarsi intellettualmente. La massima aspirazione dei giovani, a partire dagli anni novanta e fino ad oggi, fu quella di ottenere un posto di portaborse. Rafforzando progressivamente tale tendenza, si andò sviluppando il desiderio di iscriversi ad un circuito di osannanti devoti di modesti leader, divenuti padroni dei rispettivi partiti, per tentare di ottenere, in nome della fedeltà al capo, un posto in Parlamento.
Intanto le Università ed i corsi di laurea erano aumentati a dismisura, trasformando quelli che dovevano essere luoghi deputati alla formazione di eccellenza in modesti diplomifici, destinati a produrre disoccupazione intellettuale e frustrazione di massa. Il nostro Paese per conseguenza ha finito col perdere progressivamente posizioni nelle classifiche mondiali della formazione più elevata, divenendo grande esportatore di cervelli. La parte più qualificata dei nostri giovani laureati, andati a completare la loro formazione, attraverso master all’estero, spesso vi hanno trovato e trovano facilmente occupazione, depauperando delle migliori energie la nostra già claudicante nazione.
Coltiviamo oggi una società, che ha rinunciato a stimolare l’orgoglio delle proprie origini culturali, come a trasmettere nelle giovani generazioni il sogno di far tornare grande un Paese, che si muove verso un rassegnato declino, apparentemente senza ritorno.

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