I sostegni allo spettacolo a carico della pubblica Finanza rappresentano una prerogativa soltanto Europea?

Sì! Negli Stati Uniti d’America l’ingerenza pubblica sarebbe considerata di per sé come un segnale molto negativo per lo stato di salute dello spettacolo, perché prova indiretta ma sicura, di una carenza di idee e di imprenditorialità. In Italia, il sostegno pubblico, garantito dal fascismo ai film di propaganda, è stato concesso agli operatori dell’intero settore dello spettacolo, compreso quello circense! E ciò, secondo i canoni più vieti dell’autoritarismo e del clientelismo politico di tipo “paternalistico”!

Mi pare di capire che il modo di fare cinema a Hollywood o a New York (e sempre di più anche in Gran Bretagna) oggi sia diventato ancora più radicalmente diverso da quello di farlo dall’altra parte dell’Oceano (e della Manica). E ciò sia sul piano creativo e qualitativo sia su quello produttivo?

E’ così! Da noi le trasformazioni nel campo imprenditoriale avvengono con maggiore lentezza perché la battaglia di vero impegno degli addetti ai lavori resta sempre quella di chiedere, in quantità maggiore, denaro all’Erario, contributi a carico del contribuente, sponsorizzazioni di Istituzioni e di Enti pubblici. Tutto ciò, sicuro segno di parassitismo, è mascherato da una sorta di supponente sicumera anti-hollywoodiana.

Pensa che ci sia qualcosa da fare per smuovere le attuali acque stagnanti del nostro spettacolo?

E’ difficile, soprattutto perché il sostegno finanziario al cinema è richiesto, ormai, a gran voce dall’intero mondo della “cultura” che opera nello spettacolo. Ho il timore che continuerà a condizionare la produzione, almeno quella cinematografica, con sostegni pubblici sempre più gravosi per il contribuente (persino di quelli previsti in leggi elaborate a suo tempo dal regime fascista o da altre autocrazie euro-continentali).

Se ciò che interessa è la libera espressione degli autori teatrali, cinematografici e televisivi, lo sforzo di non far dipendere la loro attività dal sostegno delle Autorità mi sembra che debba essere prioritario rispetto a ogni altro. Non le sembra? Lei non scorge all’orizzonte nulla che possa rimuovere l’ostacolo?

Non mi pare, ma la speranza dev’essere sempre l’ultima a morire. Il cinema che si produce in Italia (e nell’Europa continentale) risente sempre di un clima politico e religioso molto diverso da quello che caratterizza i Paesi anglosassoni. E ciò influisce enormemente sulla creatività e, quindi, sulla diffusione delle opere; che non possono essere apprezzate da popoli abituati a drammi, film e fiction televisive prive di para-occhi fideistici.

Lei ritiene che anche la parte d’Europa che s’è giovata della Riforma Luterana non ha potuto liberarsi dell’”handicap” della cultura cristiana-cattolica?

Tutta la parte non insulare del Vecchio Continente (anche se oggi in forma certamente più mitigata che in passato) è sempre rimasta sotto l’influenza di dottrine religiose e filosofiche fondate su assiomi indimostrabili. E non a caso ha dovuto conservare forme di finanziamento pubblico dei film che hanno precluso una libertà di giudizio autonoma rispetto a quella di burocrati al servizio della politica.

In definitiva la sua opinione è che chi detiene il potere di governo in tale parte del Pianeta è portato inevitabilmente a tentare di controllare lo spettacolo con l’ingerenza dello Stato attraverso le sovvenzioni pubbliche. I governanti di tali Paesi, erogatori del denaro dei contribuenti, in buona sostanza, non tollererebbero, alla fin fine, un’espressione del pensiero veramente libera.

Certamente! D’altro canto, senza l’aiuto pubblico, in questi Paesi lo spettacolo non riuscirebbe, ormai, a sopravvivere in forma autonoma e meno che mai a raggiungere forme floride.

Anche nell’elargizione dei premi nei Festival cinematografici a film ritenuti di qualità, si possono tracciare linee di demarcazione tra i Paesi anglosassoni e quelli dell’Europa continentale?

 

L’Oscar hollywoodiano, che rappresenta l’emblema dei primi, si basa su presupposti di valutazione alquanto differenti, anche se non antitetici o divergenti, rispetto a quelli propri dell’Orso di Berlino, della Palma di Cannes e del Leone di Venezia. L’intento comune a tutti è certamente quello di dare riconoscimenti solenni e ufficiali ai film giudicati migliori, per incoraggiare e sostenere la produzione di pellicole di buona qualità in grado di imporsi sul mercato dell’intero Pianeta. E’ convinzione generale, infatti, che il cinema d’oggi, per sua natura, è mondiale o non è.

L’ho letto! Il cinema a diffusione locale può anche essere ampiamente remunerativo sotto il profilo economico, ma se i film non escono dai confini del Paese in cui sono stati prodotti, perché non interessano il pubblico di altre parti del globo, la loro vita si esaurisce nei confini nazionali.

In conseguenza, le porte dei Festival che conferiscono i Grandi Premi si aprono solo se il film è ritenuto esportabile in tutto il mondo con ritorni economici; altrimenti, restano sbarrate. Le travolgenti storie d’amore e di passione del cinema indiano (detto Bollywoodiano) non varcano, infatti, la porta dell’Oriente di Bombay (oggi Mumbai).

Negli Academy Awards (Oscar), però, il cinema statunitense è collocato dagli ideatori e organizzatori del premio in una posizione di assoluta centralità. Perché ciò non avviene nei festival europei?

Lo scopo della chiusura della sezione principale del premio al resto del mondo non è (o non è soltanto) patriottico, nel senso tradizionale del termine, ma eminentemente commerciale. Nella celebrazione del proprio prodotto, gli Statunitensi non trascurano, minimamente, la valenza economica dei film.

Secondo lei, il premio mira, in altre parole, a imporre l’oggetto dalla produzione cinematografica statunitense sul mercato mondiale?

Sì! Come in una vera e propria fiera di merci, Hollywood, con l’attribuzione degli Oscar, intende mettere in vetrina i suoi gioielli, con l’intento preciso di favorirne la vendita. Il periplo nel mondo di quei film premiati si converte in moneta sonante e ciò favorisce il benessere economico dell’intero Paese.

Come deve intendersi la riserva, molto benevolmente concessa al migliore film straniero? Una sorta di ghetto, pur confortevole e privilegiato? Un contentino dato, a mo’ di consolazione e per una sorta di diplomatico fair play?

In realtà, c’è chi sostiene che da quando sono cambiati i tradizionali metodi di votazione, la scelta del miglior film straniero consenta in primo luogo agli organizzatori degli Academy Awards di rimpinguare le casse del Premio, guadagnando qualche quattrino che i produttori esteri, investitori di somme ingenti nella realizzazione di una pellicola ambiziosa, sono ben felici di impegnare.

Capisco! La conquista del rinomato Oscar li ripagherebbe di buona parte delle spese affrontate.

Non è un caso, infatti, che le mitiche statuette della sezione speciale, siano toccate, negli ultimi tempi, a mega-produzioni europee che, avendo richiesto investimenti notevoli, avevano necessità di ritorni adeguati sul piano commerciale.

E nel vecchio continente?

L’intento dichiarato degli organizzatori di Festival cinematografici, con spese gravanti sui contribuenti, è di voler premiare il cinema d’Autore.

Si pretende, programmaticamente e con grande strombazzamento degli intellettuali cosiddetti impegnati, gratificare l’Arte e contrastare il Commercio. Non è così?

Sì. Gli uomini Europei di cultura si pongono, con una certa ostentazione, come fautori e sostenitori di uno Stato interventista nell’elargizione di sostegni economico-finanziari e/o di camuffate protezioni pseudo-doganali, all’unico ed esclusivo scopo di salvaguardare l’arte cinematografica nazionale, sottraendola alla barbarie crescente del cinema con chiare connotazioni commerciali.

Individuandolo in quello proveniente dalla detestata Hollywood?

Certo! Nel bollare a fuoco l’attività produttiva esclusivamente gestita dall’industria privata che, a loro parere, potrebbe soddisfare unicamente le esigenze della cassa, essi non scorgono gli effetti nocivi delle manovre nei bureaux ministeriali di finti produttori (e sostanziali procacciatori di contributi), di funzionari di partito, delegati alla caccia al tesoro a danno dei contribuenti e di burocrati ossequienti alle direttive di uomini politici interessati.

So per certo che spremere il limone dei contributi pubblici è, invece, cosa che indigna gli statunitensi.

Sì, perché sono convinti che lo spettacolo abbia la possibilità di autofinanziarsi se assolve il compito di interessare, avvincere il pubblico e non di tormentarlo con pistolotti ideologici di nessun valore artistico.

In tale contesto, chiaramente polemico, l’apertura di carattere internazionale dei Festival Europei ha costituito un’ulteriore prova della voluta e tenacemente perseguita differenziazione ideologica tra il cinema dell’Europa continentale e quello Statunitense?

Sì! La contrapposizione non è soltanto nominalistica…ma di sostanza. Si tratta di due tipi diversi di manifestazione, perché Statunitensi ed Europei continentali guardano al mondo della produzione d’immagini animate sonore come a due realtà molto diverse nei loro fini.

Lei dice che è piuttosto evidente la propensione a sottolineare con gli Orsi, i Palmares, i Leoni la validità artistica dei messaggi a sfondo ideologico, politico, sociale e talvolta religioso nonché l’esaltazione di Grandi Valori per il bene dell’intera Umanità?

Sì! E porta a risultati deleteri. La vocazione internazionale (rectius: planetaria) dei Festival Europei è servita, nel tempo, a caratterizzare queste manifestazioni come volte a scoprire nuovi, sconosciuti eppure meritevoli talenti cinematografici, nonché i pregi di cinematografie neglette, dotate di mezzi poveri e di nessuna distribuzione. Una polemica, sorda ma evidente, conduce sistematicamente l’Europa cinematografica a schierarsi contri i prodotti degli iper-celebrati studios hollywoodiani a favore di pellicole provenienti dal terzo mondo. Con risultati deprimenti….

Negli ultimi tempi, quindi, vincere, in questo settore, si è dimostrato per gli Euro-continentali un compito molto arduo?

I nostri registi continuano a essere tecnicamente bravi ma l’assenza di soggetti, di storie, di script interessanti e di dialoghi stimolanti, rende i nostri film poco avvincenti. La nostra stagione aurea è finita, quando la tendenza rissosa della serva Italia, già bollata a fuoco da Dante, è rispuntata sullo Stivale e si è alimentata dei consueti contrasti di natura o astratta, fondati su contrapposizioni tanto vacue quanto nette e irriducibili tra cattolici, fascisti e comunisti, o personalissima, di contrada o di bottega. Il panorama del nostro cinema è divenuto grigio e soprattutto… senza sfumature.

E i nostri critici cinematografici?

Imperterriti hanno fatto mostra di non essersene accorti e hanno continuato ad assegnare asterischi, palline, cuoricini, rettangolini pieni o vuoti e piccole stelle per indurre gli Italiani a recarsi nelle sale cinematografiche per assistere alla proiezione di pellicole nazionali. In Italia, peraltro, la mancanza di un pensiero totalmente libero, non danneggia i registi, gli operatori vari, i montatori, gli scenografi, i costumisti, gli autori delle colonne sonore, tutti bravissimi e molto apprezzati all’estero, ma esclusivamente gli sceneggiatori. Mancano autori teatrali, soggettisti, dialoghisti in grado di esprimere il senso del tempo che l’umanità sta vivendo; non vi sono o sono ignorati libri veramente interessanti da cui trarre spunti. E v’è soprattutto l’assurda pretesa del cinema d’autore che è cosa egregia se a scrivere e a porsi dopo dietro la macchina da prese sono uomini geniali; una vera e propria follia se si tratta di ottimi registi che non hanno, però, il dono della scrittura originale e avvincente.

E i politici?

Forse, per la prima volta nel nostro Paese si sono affacciati alla ribalta della storia patria, uomini politici che non parlano neppure più di cultura dello spettacolo; non usano nè la C maiuscola, né quella minuscola per indicare il fenomeno. Non ne parlano per niente.

Nessuno, peraltro, sembra soffrirne in modo particolare.

Il problema potrebbe essere anche irrilevante se non persistesse il problema del sostegno pubblico alle attività di spettacolo che assume, inoltre, una dimensione sempre più drammatica a causa della crisi economica in Occidente. Se non fossero a spese del contribuente, potrebbero anche continuare a crescere i cosiddetti “cine-panettoni”, le storie di piccoli drammi adolescenziali (preferibilmente, prima degli esami), le macchiette, le maschere sterotipate, i bozzetti paesani, i lazzi volgari e le plebee sconcezze.

Il gap del cinema italiano (ed euro-continentale) rischia di aumentare con la scoperta delle nuove tecnologie produttive?

Il cinema statunitense ha trovato una linfa vitale nuova con la creazione seriale di DVD destinati alla televisione e all’intrattenimento domestico. E anche in tale campo, sono in costante e progressiva crescita la produzione e la distribuzione indipendente: non più controllata dai magnati di Hollywood. Gli intellettuali euro-continentali si sono posti alla ricerca disperata del successo nel mercato internazionale che è in misura crescente, avido divoratore oltre che di opere narrative, poetiche e filosofiche, di film e fiction televisive senza, peraltro, riuscirvi. La loro visione del mondo contenuta nelle immagini animate sonore (sul grande come sul piccolo schermo) è ancora impregnata, nel migliore dei casi, di una cultura filosofica largamente superata dai tempi.

Non crede che in Francia, qualche barlume di pensiero libero sia da condizionamenti religiosi (in primis, cattolici) sia da ipoteche politiche (soprattutto marxistiche) cominci a intravedersi nel cinema e nella produzione delle televisioni libere e non pubbliche?

Sì! Non è molto, ma è già qualcosa. Il fatto è che nell’Euro-continente l’intervento pubblico nel cinema e ancor più nella televisione è tuttora massiccio: e sono rari i burocrati che erogano i contributi o pagano le spese di produzione che siano lettori di Leopardi e di Bertrand Russell per non dire di Democrito, di Lucrezio, di Locke e degli empiristi inglesi. Gli Euro-continentali, colpevolmente, mostrano di nutrire poca fiducia nella lungimiranza e apertura intellettuale e nel fiuto commerciale degli operatori privati. Frastornati dalla propaganda politica, prima fascista e poi comunista, continuano a ripetere scontate giaculatorie sulla contrapposizione di un cinema industrial-commerciale e un cinema d’autore, creatore di prototipi artistici (secondo la definizione di un regista italiano, militante con posizioni molto oltranziste nella sinistra nazionale).

In definitiva, mi pare di capire, che con una certa prosopopea, gli Europei continentali si dichiarano gli unici autorizzati a parlare di cultura nel cinema?

E percorrono strade agli insuccessi avvezze. I Nord-americani, a modo loro, replicano che business is business, e che quando si spendono miliardi altrui per portare la gente nelle sale cinematografiche non è corretto far divertire minoranze agiate e culturalmente frustrate con i soldi tratti dalle tasche di gente povera ma curiosa, che non metterà mai piede in un locale dove si proiettano film di propaganda ideologica, a beneficio dei burocrati di partito.

La disputa ideologica è tuttora in pieno svolgimento?

Non è difficile costatare, però, in termini di fatto che a favore della posizione anglosassone (sulla linea degli americani del Nord vi sono, infatti, tutti i paesi di lingua e di cultura inglese) sta il fatto che i Paesi dove maggiormente prospera la creatività non solo cinematografica (ma anche teatrale e dell’intrattenimento tout court) sono quelli dove la cura delle autorità di governo, centrali e/o locali non si spinge mai sino al punto di istituzionalizzare in mano pubblica la gestione delle attività di spettacolo (cinema, ovviamente, in prima linea). Né, tanto meno, di sostenerla con contributi e sovvenzioni di tipo assistenziale, elargiti, come suol dirsi, a pioggia. La verità è che nei Paesi dell’Europa continentale a languire è proprio quella Cultura, che gli intellettuali cosiddetti impegnati si ostinano a scrivere rigorosamente con la maiuscola.

Mi sembra, però, che l’ossigeno del pubblico sostegno finanziario al cinema europeo-continentale, diventi proporzionalmente sempre più scarso e insufficiente, in relazione alla lievitazione dei costi di produzione e alla crisi economica.

Sì e non riesce più a consentire al cinema europeo neppure condizioni di minima sopravvivenza. Per la crescita e per lo sviluppo di questo ramo così importante e fondamentale delle singole produzioni nazionali, si sono invocate terapie ufficiali, ma mai al capezzale del malato sono stati chiamati economisti, esperti di finanza, di mercato e di aziende, persone pratiche del business di livello mondiale. L’Europa ha insistito e insiste nel chiedere lumi per la soluzione della crisi ad intellettuali, a critici d’arte cinematografica, a esteti, a filosofi e a letterati, nel presupposto, solo in parte, vero che l’industria cinematografica, come quella editoriale, produce di per sé e sempre opere d’arte, capolavori culturalmente importanti e rilevanti.

E ciò legittimerebbe l’intervento nella normazione dell’attività produttiva di persone estranee alle problematiche del mondo degli affari?

La verità è, invece, che uomini insigni nel campo dell’arte, della letteratura o della filosofia sono spesso sorretti dalle mire della propria corporazione e/o dell’accademia di cui fanno parte e non hanno assolutamente la competenza giusta per provvedere a esigenze di sostegno finanziario dell’attività di spettacolo. Non è un caso, quindi, che per molti anni, l’Europa, con l’eccezione britannica, ha contrastato con forza ogni provvedimento di legge che si proponesse lo scopo di agevolare concretamente il processo d’industrializzazione del cinema, magari contemplando unitariamente, in un solo provvedimento, la disciplina di tutte le attività produttive d’immagini animate sonore sia per il grande sia per il piccolo schermo. Inoltre, la sostanziale diversità delle esigenze di tutela degli operatori artistici e tecnico-professionali del cinema rispetto a quelle dei produttori e dei distributori dei film rende difficile, in Europa, la possibilità di amalgamare, in contesti normativi omnicomprensivi, il quadro delle istanze degli uni e degli altri.

Lo stato di stallo, a quel che dice, mi sembra perdurante?

Sì, se strutture pubblicistiche, organismi produttivi amministrati da organi direttivi burocratici, spesso pletorici per far posto a rappresentanti del potere politico, sindacale o corporativo, continuano a caratterizzare il panorama della produzione cinematografica europea, rimangono estranei alla realtà dello spettacolo, in questa parte di mondo, forme di significativa incentivazione industriale (detassazioni degli utili reinvestiti, agevolazioni fiscali e creditizie, finanziamenti pubblici e privati di progetti produttivi di respiro internazionale, promozioni di fondazioni culturali).

Eppure c’è chi sostiene che impieghi indiretti e finalizzati del pubblico denaro si dimostrerebbero, nei fatti e nel tempo, più idonei a favorire, selezionandoli con lo stimolo della concorrenza e della competitività, gli organismi privati più validi sotto il profilo non solo produttivo ma anche artistico di quanto non avvenga ora.

Sì. Le attuali forme di gestione sovvenzionata, sciatte e parassitarie, caratterizzate dalla burocratizzazione dell’attività e dello stesso personale dipendente, anche artistico (sottratto incongruamente alle leggi della competitività professionale) si sono dimostrate fallimentari.

Per ciò che riguarda l’Europa continentale, c’è chi, di tanto in tanto, getti un sasso in piccionaia?

In Italia, meno che in Francia e in Spagna. Si avverte, però, la sensazione che anche nel campo della creatività artistica, in generale, e letteraria o tele-cinematografica, in particolare, qualcosa stia per cambiare, per effetto del cambiamento socio politico in atto nella società dei nostri Paesi. Il divario esistente nell’ambito dell’Occidente non appare più sostenibile. Anche se la divaricazione ha ragioni storico-filosofiche (e quindi politiche) piuttosto antiche, è da più di un quarantennio che ha assunto proporzioni maggiori. Chi, per sua natura, è incline al pessimismo, potrebbe anche ritenere che, in futuro, non vi sarà spazio alcuno per un pensiero libero e che la vita sul Pianeta sarà caratterizzata unicamente da scontri tra opposti fondamentalismi, religiosi o filosofici, che realizzeranno, in modo inconscio, il cupio dissolvi degli esseri umani; probabilmente stanchi di soggiornare in un Cosmo dagli eventi imprevedibili e spesso catastrofici.

Mi sembra difficile azzardare previsioni. Non le pare?

Sì. Appare preferibile attenersi al presente e analizzarlo per tentare di antivedere unicamente il suo più prossimo e vicino sviluppo. Attualmente, si può tranquillamente affermare che se il vecchio non funziona più, il nuovo stenta a manifestarsi. Con un po’ di ottimismo, naturalmente, si potrebbe anche immaginare che il passare del tempo e i progressi della scienza astrofisica possano ricondurre gli occidentali alle vere radici del loro pensiero, saldamente ancorato al logos e non ancora inquinato da irrazionali fantasie oniriche. Sul piano più particolare e ristretto del cinema italiano, esso, per tornare a vincere, dovrebbe anche recuperare il senso del lavoro di equipe che dà forza e vitalità al cinema e alla fiction televisiva e ridare agli sceneggiatori il ruolo che è loro proprio, negando l’utopia generalizzata del film d’autore. Nella scrittura di testi finalmente originali, intelligenti, acuti, perspicaci, liberi, autonomi, non codini e non follemente utopistici di veri scrittori, sarebbe il futuro, non soltanto del cinema, ma di tutte le nostre attività di spettacolo.

 

 

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