Una prima parte delle festività di fine-anno è passata. Con l’approssimarsi del Capodanno, festa laica di portata più ampia e generale, non è male cominciare a fare un po’ di conti per il nostro futuro politico.
Le previsioni elettorali più accreditate e ricorrenti danno circa il trenta per cento ai penta-stellati e, più o meno, il quindici ai leghisti.
C’è chi non esclude che questi ultimi, dopo molti contrasti interni alla coalizione di cui fanno parte (per lunga e abbastanza usurata tradizione) abbandonino, dopo il voto, il centro-destra.
A questo punto resterebbe il problema di capire se le forze, disperse in più rivoli, ma che, in uguale misura, si sentono tradite dagli artefici del “decennio nero” e che sono sempre più decisamente ostili ai due leader che l’hanno maggiormente caratterizzato, possano raccogliere un significativo successo presso l’elettorato dei democratici di sinistra, delusi dal “renzismo” e dei “veri” liberali, di centro o di destra, non sedotti dal Cavaliere e dalle sue Sirene magniloquenti e salottiere.
Ciò potrebbe anche consentire ai due partiti, uniti nella protesta contro il sistema, definito “del clientelismo e della corruzione”, di dar vita, con l’apporto di forze diverse, a un governo, almeno temporaneo o di cosiddetta transizione, per un soddisfacente ripristino della legalità.
Un governo, cioè, che dia agli Italiani la possibilità di recuperare in pieno i diritti politici compromessi dal Porcellum, dall’Italicum e dal Rosatellum e di ritornare al voto, con sistema elettorale corretto e degno di un Paese democratico e civile, per decidere, cognita causa, i maggiori problemi sul tappeto per la nostra popolazione, compresi quelli della sua collocazione nel panorama internazionale e del suo rapporto con le nuove personalità politiche divenute egemoni nel mondo.
C’è da augurarsi che del sessanta per cento degli Italiani che decretò la sconfitta referendaria della riforma costituzionale di Renzi, Boschi e Verdini, solo una minima parte alimenti ancora l’astensionismo, il numero delle schede bianche (che rappresentano un vero invito per “manine” misteriose a trasformarle in voti validi) e quelle nulle (che sono il segnale più deciso di rifiuto di votare, di là dall’opzione partitica, per candidati del tutto sconosciuti dall’elettorato).
Se così fosse, per l’Italia si tratterebbe della prima, vera rivoluzione (pacifica e tranquilla, ma parimenti profonda e radicale) contro un bimillenario servaggio all’autoritarismo e un altrettanto protratto costume al conformismo.
E’ vero che le rivoluzioni le fanno soltanto i popoli; e non, di certo, le gentildonne ingioiellate e “griffate” e i gentiluomini in abiti in doppio petto, grigi, gessati e di buon taglio sartoriale, con formazione culturale in scuole, più spesso private (e religiose) ma anche pubbliche (e statali). E’ ora, però, che le élite agiate abbandonino, almeno al momento del voto, le loro posizioni di “aristocratico” distacco dalla realtà italiana e smettano di preoccuparsi soltanto della corretta conoscenza della grammatica e della sintassi italiane (con dichiarata priorità assoluta per l’uso del congiuntivo) e che manifestino tali preoccupazioni, soltanto quando si tratta di scegliere gli uomini di governo.
Nel sessanta per cento degli Italiani che ha decretato la fine del “Renzismo” all’epoca referendaria, v’erano fior di professionisti, ingegneri, medici, avvocati, docenti universitari, imprenditori industriali e commerciali.
Oggi il loro “must” dovrebbe essere quello di ritornare a votare contro tutti i responsabili del “decennio nero”, che si è posto, per misfatti politici sulla stessa linea autoritaria della proposta riforma costituzionale; e dare il loro essenziale contributo per evitare i danni, sempre ipotizzabili, per le azioni di governo di persone, anche solo parzialmente prive di cultura, storica e politica, spesso digiune di esperienze pratiche e amministrative. E ciò, con il loro fattivo impegno di persone che hanno avuto il modo e la fortuna di addottorarsi, vivendo lontani dalle contrade periferiche e suburbane dei “compagni di merenda” e dai Caffè dello Sport degli abitanti di derelitti contadi.
Un elemento positivo che alimenta tale speranza c’è: abbiamo toccato il fondo dell’enorme barile, colmo di acqua melmosa, e possiamo immaginare che puntando i piedi sulla base, si possa trovare la forza e la spinta per l’inizio di una risalita, faticosa ma salvatrice; certamente non puntata verso mete ritenute “sublimi” (perché altrimenti staremmo punto e a capo con gli ideali falsi e fasulli degli imbonitori di piazza, così frequenti nel Paese dei “Dulcamara”) ma verso risultati più accettabili di attività pragmatiche volte a raggiungere (pur con ipotizzabili e forse inevitabili, circoscritte e contenute deviazioni) il soddisfacimento di interessi, concreti (e non fumosi), di natura pubblica (e non privata, come quella che ha imperato nel “decennio nero”) a livello internazionale, interno (di pacifica e tranquilla convivenza civile e sociale), agricolo, industriale, post-industriale e via dicendo.
Accortezza, prudenza, astuzia (lontana, però, dalla spregiudicatezza opportunistica), capacità di volgere nell’interesse della nostra collettività (sperabilmente “bloccata” nella sua entità numerica, autoctona o integrata, e osservante convinta di un patto sociale ben delimitato, con regole precise) situazioni difficili e complesse e di evitare pericoli dovrebbero essere le linee-guida di governi non ideologici, non confessionali (con relativi minori ossequi ad Autorità degnissime di rispetto ma straniere ed estranee ai nostri bisogni di collettività organizzata), e soprattutto non compromessi con le nefandezze del “decennio nero”.
Buon Anno!
