Nei paesi in cui il sistema elettorale non consente di esprimere un governo direttamente investito dal corpo elettorale, come l’Italia (almeno per quelle più importanti cioè le elezioni politiche per quelle “amministrative” invece c’è, e da oltre vent’anni), è doveroso, per non perdere ogni contatto con i principi elementari della democrazia politica, che, anche se non designato previamente un leader e una squadra di governo precostituita, quanto meno il governo – necessariamente di coalizione – debba costituirsi interpretando l’orientamento espresso dal corpo elettorale nelle votazioni, come da prassi.
Ad esempio il 18/04/1948 (agli albori della repubblica) i votanti dettero all’incirca il 60% dei suffragi alla DC e alleati (da sola il 48% e il resto ai partiti laici di centro). Il blocco delle sinistre, contrapposto riportò il 31%. Secca sconfitta ed inequivocabile decisione che, a governare, dovesse essere il centro, imperniato sulla DC. Se De Gasperi avesse cooptato nel governo il PCI o il PSI (o entrambi), e/o “scaricato” socialdemocratici e liberali avrebbe volto in burletta la volontà popolare e la neonata democrazia italiana. E lo stesso, se il Presidente della Repubblica avesse dato l’incarico a qualche figura “terza” o consolare (anche autorevole, allora ce n’erano a disposizione) come Orlando o Nitti, poco identificabili con gli schieramenti elettorali.
Fortunatamente all’epoca prevaleva una concezione della democrazia realistica e responsabile onde il governo che ne uscì era esattamente corrispondente all’indirizzo dato dagli elettori: governò De Gasperi con gli alleati “naturali”, ed iniziò così la ricostruzione e lo (straordinario) sviluppo italiano nel secondo dopoguerra.
Proprio per questo occorre ricavare gli indirizzi e la volontà manifestata dal corpo elettorale il 4 marzo perché la gestione della fase post-elettorale sia coerente con l’affermato e ossequiato carattere democratico della Repubblica.
Il primo indirizzo è che il popolo ha chiaramente sconfessato l’operato dei governi della legislatura conclusasi: tutti PD con qualche annesso (e connesso). Tale fatto è chiaramente desumibile dei risultati del centrosinistra: questo aveva riportato nel 2013 quasi il 30% dei suffragi, ridotti a circa il 23% nel 2018.
Netta sconfitta, con la conclusione, correttamente (ne va dato atto) espressa dal PD di dover stare all’opposizione; d’altro canto che la politica semirigorista e imbalsamatrice (e altro) praticata da anni (anzi da decenni) dal centrosinistra debba essere ribaltata se non drasticamente revisionata.
Secondo indirizzo (inequivocabile), il più interessante (e decisivo, anche a lungo termine): che le forze politiche le quali si distribuiscono lungo l’asse (e il discrimine) del vecchio assetto politico (borghese/proletario) sono passate in minoranza rispetto a quelle sovran–popul-identitarie, distribuite secondo il discrimine identità/globalizzazione (ossia potere decisivo alle istituzioni nazionali o a quelle non-nazionali). Infatti i primi (M5S+Lega+FdI+liste minori) stanno a quasi il 60% mentre gli altri a meno del 40% (PD+F.I.+L.E.U.+ liste minori). Di conseguenza: a) i primi sono legittimati – anzi hanno il dovere – di costituire il governo; b) anche il governo futuro dovrà realizzare politiche radicalmente diverse da quelle seguite fin adesso.
A quanto risulta tali evidenti conclusioni non sono condivise da molti. L’insistenza con cui si profilano governi a direzione tecnica o “autorevole” (si fa per dire, perché in genere si confonde potere con autorità e carriera con autorevolezza) sostenuti da coalizioni disparate e variabili come le ricette dei cocktail (1/3 di populisti, 1/6 cadauno di sinistra e destra, un terzo di tecnoautorevoli o altre combinazioni più o meno fantasiose) sono evidentemente ispirate dalla volontà di conculcare la volontà espressa dagli elettori diluendola e ridimensionandola in miscugli governativi.
Certo le diversità tra le due “componenti” principali dello “schieramento” populista sussistono (reddito di cittadinanza, flat tax, sud v. nord, e così via), tuttavia le divisioni politiche avvengono in base a due fattori principali (e connessi) il nemico (relativizzato o meno) e gli obiettivi. Quanto al primo è comune la freddezza ostile (in diversa misura) dei populisti verso: poteri globalizzanti, élite dirigenti, “poteri forti”. Quanto ai secondi: detronizzazione delle vecchie élite, politiche economiche non rigoriste e non distributive “al contrario” (dal basso verso l’alto) come quelle praticate o poco contrastate, per l’appunto, dalle vecchie élite da pensionare.
Quindi quanto hanno in comune, e, ancor più, la percezione di nemico e obiettivi comuni da parte della maggioranza dell’elettorato costituisce un fattore d’aggregazione forte, e quindi propiziante il governo.
E ciò è parimenti doveroso e non per conformità a idee e valori, quanto al funzionamento di ogni sistema politico, ancor più se democratico. In nessun regime si può prescindere dalla sintonia delle classi dirigenti con i governati, cioè dal consenso di questi e dalla coerenza di quelle con i principi del regime (soprattutto in quello democratico).
Ancor più se, come interpretato da molti, la crescita dei partiti “populisti” è dovuta ad una frattura orizzontale (e non verticale) che vede contrapposte non frazioni di classe politica – e relativo seguito popolare, ma direttamente il popolo alle classi dirigenti (Lasch, Piccone).
Che è un genere di frattura basso/alto (e non più destra/sinistra) foriera di dissoluzione dei regimi e, spesso, anche delle istituzioni.
Per cui anche se un governo “populista” non appare il massimo, ha il pregio di disporre già un consenso acquisito: Quanto questo sia ben riposto è materia da indovini e profeti (di sventura ne abbiamo tanti, e assai garruli, e da Brexit a Trump si sono sempre sbagliati). Ma affidarsi a personaggi (e formule) privi anche di quel capitale è una strada tutta in salita.
