La legge del tempo è inesorabile e non risparmia nemmeno i maestri del pensiero.
Di là, infatti, dall’utopia dell’uguaglianza sociale a livello planetario, sconfitta dalla Storia (e, prima di essa dal buon senso degli individui raziocinanti), anche la sola teoria economica di Karl Marx, tutta incentrata sull’analisi della prima società industriale risente dei lunghi anni trascorsi dalla sua formulazione.
E l’usura dei secoli non ha risparmiato neppure la dottrina liberale (che ha origini, anche più antiche del marxismo con John Locke, David Hume, Adam Smith, l’illuminismo europeo e statunitense).
E ciò anche se non si tratta, certamente, di un’ideologia filosofica, ma piuttosto di un “metodo” destinato soltanto a tracciare linee per contenere i poteri dello Stato e per affrontare nel modo migliore i problemi di una data società; tenendo, ovviamente, come guida la libertà e il benessere dell’individuo, facente parte di un raggruppamento sociale.
La necessità di una revisione dell’idea liberale si giustifica anche per le trasformazioni negative da essa subite nel corso del tempo. Il liberalismo è diventato, infatti, in tempi recenti, neo o iper liberismo; in tale configurazione ha imposto la globalizzazione; e ha immaginato per la parte più ricca dell’Occidente un destino di produzione di ricchezza, prevalentemente ottenuta con il prestito del denaro.
Una salutare, vera, profonda e benefica revisione del liberalismo è divenuta, perciò, più che necessaria. E ciò, anche per altre ragioni.
La situazione produttiva in Occidente non è oggi quella analizzata da Adam Smith. Dall’industria meccanica dei motori e dell’energia elettrica, il mondo occidentale è passato, con la rivoluzione elettronica, alla preponderanza assoluta e determinante del digitale, sia nel processo realizzativo sia nel prodotto finale.
Ciò ha comportato una divaricazione profonda tra i Paesi dell’Occidente:
1) alcuni di essi (Gran Bretagna e Stati Uniti d’America) più progrediti sul piano tecnologico, hanno realizzato una società post-industriale con la produzione di beni immateriali, manufatti di grande qualità e servizi eccellenti;
2) gli imprenditori degli altri Paesi (Stati-Membri dell’Unione Europea) hanno continuato, invece, ad arrancare nel trarre profitti da una produzione manifatturiera, resa non più competitiva dall’alto costo della mano d’opera (e del welfare) e dalla “concorrenza” di Paesi autoritari, se non dittatoriali, con lavoratori a basse paghe o a ricorrere a complessi processi di “delocalizzazione” delle aziende manifatturiere in luoghi del terzo mondo.
Per realizzare l’obiettivo, i due Paesi anglosassoni, hanno capito che era necessario operare una revisione del liberalismo tradizionale.
May e Trump, quindi, hanno sottoposto a verifica concettuale alcuni principi della dottrina liberale, elaborati ai tempi della prima industrializzazione del mondo occidentale, dando di essi una lettura che tiene conto del diverso assetto produttivo del Pianeta e non hanno esitato a offrire un quadro del liberalismo molto diverso da quello elaborato dai loro progenitori. In soldoni, essi, liberandosi dall’osservanza tralatizia di principi inadeguati a interpretare la realtà contemporanea, hanno individuato i due punti di crisi della dottrina liberale nella libertà dello scambio delle mercie della trasmigrazione della gente da un luogo all’altro del Pianeta; hanno ritenuto, in altre parole, che non poteva considerarsi “liberale” la necessità di scambi commerciali e di mercantilismo senza barriere nazionali, in presenza di profonde alterazioni degli equilibri salariali nel mercato del lavoro (determinate dalle diverse condizioni sociali e di libertà dei lavoratori) nè si poteva fare ricorso a un nuovo schiavismo per compiacere “interessati e calcolati” umanitarismi.
Successivamente, i due leader anglosassoni hanno realizzato un contenimento degli effetti perversi della globalizzazione, dimostrandosi autonomi e indipendenti dal sostegno (notevole) del capitalismo finanziario e hanno contrastato la tirannia oligarchica dei banchieri, tendente a trasformare il capitalismo pieno e multi-produttivo di beni materiali, immateriali o di servizi, in un capitalismo con attività in prevalenza meramente monetarie (volto a produrre ricchezza solo prestando denaro, attraverso il sistema creditizio in favore di imprese bisognose di aiuto).
Contemporaneamente, si sono imposti di recuperare, con provvedimenti adeguati, competitività anche per i manufatti tradizionali, ponendo un argine alla “delocalizzazione”, utilizzando, anche a questo fine, l’imposizione di dazi doganali sui manufatti prodotti nei Paesi dove solitamente avviene il trasferimento delle imprese.
Le ragioni di May e Trump sono pienamente condivisibili.
La libertà di scambio non può essere un “feticcio” per non vedere realtà mutate in modo sconvolgente. Quando i primi liberali ne parlarono, tutti i Paesi “produttori” erano su un piede di parità. Nell’Occidente che s’industrializzava gli operai percepivano salari che si differenziavano tra di loro soltanto di poco.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, con l’ingresso nel Mercato, di Paesi ex comunisti, occidentali e orientali, tuttora molto autoritari, i manufatti prodotti in quelle lande sono realizzati con stipendi di fame.
Allora c’è da chiedersi: è giusto ammettere a libera concorrenza nei nostri Paesi, di ancora accettabile democrazia e con livelli di retribuzione sostanzialmente equi se non alti, i prodotti di Paesi dittatoriali (o comunque con mano d’opera mal pagata) o non si creano, in tal modo, condizioni difficili di sopravvivenza per i lavoratori euro-continentali e si premia l’autoritarismo, magari tirannico, a fronte della libertà e della democrazia?
Lo Stivale e gli altri Paesi dell’Unione Europea (che pure hanno, per così dire, “importato”, i principi liberali elaborati in Inghilterra) sono rimasti fermi al palo, interpretando sostanzialmente il liberalismo come conservatorismo tout court e rimanendo legati a una lettura tralatizia dell’antica dottrina politica.
Eppure è noto a ogni uomo amante della libertà e della mobilità del pensiero che una “dottrina” “politica” è sempre modificabile, perché essa deve rispondere, come dice lo stesso etimo della parola, solo alle esigenze della polis.
