La strada verso un maggiore pragmatismo nelle scelte politiche potrebbe essere spianata dall’imminente  voto per il Parlamento Europeo, sempre che, questa volta, gli elettori, invece, di votare sulla base delle consuete, abitudinarie astratte formulazioni ideologiche e/o di vieto schieramento negli emicicli della Camera parlamentare dell’Unione (destra, centro, sinistra), si concentrassero magari su di un singolo, specifico, concreto e determinato problema.

Un aspetto della vita comunitaria che vorrebbero vedere risolto, o almeno avviato a soluzione, in una certa direzione piuttosto che in un’altra, dai futuri responsabili della politica euro-continentale.

E ciò anche,  senza poter pretendere, visto l’attuale livello di chi si dedica alla politica,  che a realizzarlo siano personalità di eccelse virtù umane (che non sembrano esservi) ma piuttosto dei buoni “mestieranti”, fedeli, nei limiti del possibile, alle promesse fatte.

L’Europa è stata per secoli protagonista nella storia del mondo, attestandosi tra i grandi poli della produzione industriale planetaria: da un po’ di tempo batte il passo ed è stata superata da altri Paesi. Ciò determina un senso di frustrazione ma gli Europei stentano, oggi, a risalire la china; perché?

Spesso nei miei articoli su questo giornale ho tentato di dare delle spiegazioni. Ho anche scritto che il Vecchio Continente è afflitto più di ogni altra parte del mondo, per ragioni storiche bene individuabili,  da un’inveterata abitudine alle contrapposizioni faziose.

Naturalmente, si tratta di un fenomeno che ha origini e motivazioni che non sono esclusivamente europee ma umane tout court: sono connaturate all’essere umano e nascono sin dal momento delle prime aggregazioni collettive, a partire da quelle tribali.

La ragione è più che comprensibile. Non si può impedire all’essere umano di sognare, di utilizzare, magari per sopravvivere, la sua fantasia.

Con l’immaginazione, una delle espressioni del suo pensiero, l’Uomo  può disegnare per se stesso o per altri una realtà anche diversa da quella vera.

In altre parole, le sue capacità creative rendono la “falsità”, il “fake” degli Anglosassoni,  una conseguenza inevitabile di una tale “arte” e combatterla, successivamente, con il ricorso alla ragione, altro elemento costitutivo (e distintivo) del pensiero umano, non sempre risulta agevole.

E ciò, perché, “falsando-falsando”, l’essere umano crea anche una serie di regole di comportamento per se stesso e verso  gli altri, improntate alla realtà artificiosamente creata, che lo imprigionano nei vincoli di quella che, nel linguaggio comune, è detta “coscienza” ed è intesa, a volte interessatamente da chi voglia usarla come arma di ricatto, come criterio supremo della moralità.

La conseguenza è che la valutazione etica e religiosa del proprio agire viene a dipendere, in buona sostanza, dalle realtà fasulle inventate, che l’essere umano con le proprie fantasie è riuscito a creare, a scapito delle sue stesse capacità di raziocinio e che solitamente sono indicate, in modo manicheo, come aree del Bene e del Male.

Per esemplificazione, immaginiamo due esseri umani che, scesi dall’albero (e, allontanatisi dalle scimmie),  scoprono in se stessi le due maggiori facoltà di cui, in aggiunta alla memoria, la natura li ha dotati: la ragione e la fantasia.

Il primo dei due, che chiameremo Tizio, facendo esperienza di ciò che gli avviene intorno, cerca di orientare, ai fini della sopravvivenza, il suo agire in modo coerente con la consapevolezza di non potere né prevedere né modificare gli eventi che mettono a rischio la sua esistenza (bene sommo che sente, comunque, di dover salvaguardare, al di sopra di ogni altra cosa e con ogni possibile ricorso all’intelligenza). Che cosa fa, Tizio? Osserva il corso degli eventi, ne desume alcune regole in ordine alla loro ripetitività, studia quali rimedi possano tenerlo al riparo dei rischi e dei pericoli, scopre, in prosieguo di tempo, la matematica, la fisica, le facoltà logiche del suo pensiero e si convince di vivere, anche suo malgrado, su un infinitesimale granellino di materia immerso in un pulviscolo di altri minuscoli corpi  (che definisce celesti perché, di notte, li vede brillare nel cielo). Nell’incontrare altri esseri umani, discesi dagli alberi vicini al suo, capisce che la convivenza, per non mettere a rischio la propria vita, deve avere alcune regole fondamentali di rispetto degli altri.

Si crea così il “diritto” e si cura l’organizzazione della collettività, quella ristretta che vive negli stessi confini naturali, che ha identiche abitudini e che parla una stessa lingua.

Il secondo Uomo, che chiameremo Caio, scopre, invece, che a seguire il raziocinio, egli può precipitare in una paralizzante paura: quel Cosmo indecfrabile con miliardi di stelle nel cielo lo atterrisce enormemente, perché non riesce a conoscerne le regole nè a prevederne con sufficiente certezza i movimenti; abbandona allora la ragione e si rifugia nella fantasia e nel sogno, rilevandone subito i benefici effetti sulla propria tranquillità. Quel sistema che gli appariva in preda al caos diventa rassicurante se ricorrono due condizioni tra di loro alternative:

a) Caio immagina che il Cosmo sia regolato da un Essere Superiore (che, anzi lo ha addiruttura creato e che sovraintende a tutto).  In conseguenza, egli fa professione di devozione, di umiltà (pur nella presunzione di avere capito più di altri oltre che  di avere speciale protezione da Poteri Celesti che gli altri non hanno); dichiara di sentirsi “un fedele” che ama confondersi nel gregge (che vede esteso fino al punto di comprendere tutti gli abitanti del Pianeta), partecipa a riti collettivi di massa, ma non disdegna di porsene a capo per guidarli verso la salvezza, addirittura “eterna”.

b) Lo stesso Caio può ritenere, invece, che l’Uomo abbia in sé la capacità di individuare l’Idea che costituisce la chiave di comprensione di ciò che avviene sul Pianeta e anche oltre (metà tà fusikà, id estmetafisica che significa “oltre le cose fisiche”). In conseguenza, si ritiene in grado di capire tutto e tutti, si autoproclama “filosofo” “maestro del pensiero” “intellettuale” e pretende addirittura di fare da guida agli altri.

Sia nella prima versione che nella seconda, Caio ritiene di avere una missione nobile e superindividiuale, di agire nell’interesse non proprio ma della fratellanza umana universale e ostenta un’idea di superiorità verso chi ha cura soltanto del suo “particulare”.

La conclusione è che il sognatore, l’utopista irrazionale, il   religioso, il filosofo idealista, tutti  immaginifici creatori di realtà immaginate,  sono i soli ad avere chancheper sedurre e dominare gli altri abitanti del Pianeta. Più dei razionalisti empirici, infatti, possono fare proseliti, perché la maggioranza della gente è impaurita, non vuole guardare alle cose senza paraocchi e si sente gratificata dal partecipare a opere di salvezza universale.

Tutto ciò a chi vuole a tutti i costi “ragionare” sembra irrazionale….ma è lo stesso raziocinio a suggerire che, rebus sic stantibus, sarebbe puramente fantasioso immaginare il contrario.

 

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