Oggi nove novembre 2019, nel trentennale della caduta del muro, non posso fare a meno di ricordare le due grandi emozioni, di segno diverso, che mi ha dato la città di Berlino. Poco più che diciottenne, dopo aver partecipato ad una scuola estiva di liberalismo in un vecchio castello sul Reno, ero andato a Berlino, ospite insieme ad un altro amico palermitano, di un giovane liberale di quella città. La mattina del sedici agosto 1961, incuriositi da una grande confusione, ci avvicinammo alla porta di Brandeburgo, dove ci fermarono i militari russi con i mitra spianati e ci interrogarono a lungo in uno stanzone buio, prima di rilasciarci. Dopo fummo informati che quella mattina si era verificata una sollevazione giovanile, prontamente repressa ed eravamo stati sospettati di essere, anziché turisti curiosi, partecipanti alla rivolta. Dopo quell’avvenimento, dai sovietici fu precluso ai berlinesi dell’Ovest di recarsi presso quelli dell’Est e viceversa, sbarrando tutti i transiti e successivamente venne avviata la costituzione del vergognoso muro, che per quasi un trentennio rappresentò come una cicatrice profonda al centro dell’Europa. In quei giorni molto tesi, come stranieri avevamo il permesso di transitare al Checkpoint Charlie. Quindi facemmo sovente la spola per portare notizie e messaggi ad amici e parenti da una parte all’altra. Tornai a Berlino l’anno successivo, quando il muro era stato costruito ed i fabbricati sulla linea di confine, svuotati dagli abitanti, erano stati ridotti a scheletri e trasformati in postazioni di controllo con mitragliatrici e militari posti nei vani delle finestre divelte con le armi spianate. Lo spettacolo era desolante e quella città così brutalmente divisa in due spaccava il cuore, con l’aggravante di dover riscontrare una miseria disperata nella grigia parte Est, che strideva rispetto alla colorita e festosa zona Ovest. Come successivamente disse Kennedy, in quell’epoca non si poteva non sentirsi istintivamente berlinesi. Portai a lungo sul bavero della giacca un piccolo distintivo con la porta di Brandeburgo, quale modesto segno di solidarietà.
La costruzione del muro si rivelò l’errore più grave commesso dal regime sovietico, alla stregua dell’invio dei carri armati per sedare la rivolta dei giovani di Budapest nel 1956 e successivamente per abbattere il governo legittimo di Dubcek a Praga nel 1968. Agli occhi del mondo, che aveva scarse notizie della deportazione di milioni di dissidenti in Siberia, quelli infatti furono gli eventi che dimostrarono platealmente la ferocia della dittatura comunista sovietica. Berlino rimase nel mio cuore e mantenni a lungo contatti con gli amici con cui avevo condiviso indimenticabili emozioni in quell’estate del 1961. Nel 1989, quando i sintomi della implosione del sistema politico repressivo dell’URSS cominciarono ad essere evidenti, con il gruppo dirigente del PLI, compimmo diversi viaggi nei Paesi oltre la cortina di ferro per capire le ragioni della crisi e farci un’idea della possibile evoluzione. Casualmente ci trovammo a Berlino il nove novembre 1989 e potemmo assistere in diretta, vedendolo con i nostri stessi occhi, allo sfondamento del Checkpoint Carlie e degli altri punti di confine da parte di un’immensa folla, calcolata in oltre un milione di persone, che si riversarono all’Ovest, travolgendo le barriere, avviando la demolizione del muro ed abbracciandosi con i Vopos, che fino al giorno prima, anzi alla mattinata stessa, avevano presidiato il confine. Avemmo il privilegio di partecipare con emozione, armati di pale e picconi alla frantumazione di quel simbolo del sopruso verso un intero popolo e condividerne l’immensa gioia collettiva del ricongiungimento di famiglie ed antiche amicizie, separate da quasi un trentennio, insieme all’avvio festoso della riunificazione di una nazione, artificiosamente divisa dal cinismo sovietico.
Pensammo tutti in quelle ore che la stagione della caduta dell’URSS, ed in particolare lo storico evento berlinese, avessero segnato la vittoria definitiva della democrazia liberale, dopo il lungo incubo della pesante stagione della guerra fredda. Ci sbagliammo nel non aver tenuto conto che gli esseri umani, insieme alla vita, nel loro interno, coltivano sempre l’idea della morte, che prima o poi si fa strada, attraverso nuove forme autoritarie, dittatoriali, plebiscitarie. In Italia la tendenza negativa si manifestò, prima che altrove, attraverso un ventennio di Repubblica giudiziaria, guidata dal cieco giustizialismo di molte procure, che avevano in mente un disegno preciso e che, anche quando i cittadini democraticamente sceglievano una maggioranza diversa, cercavano di abbatterla, attraverso una pregiudiziale criminalizzazione e comunque additando intere Regioni come irreversibilmente in mano alla criminalità organizzata, quindi non degne di potersi sviluppare come le altre. Successivamente in tutto il mondo si è fatto strada un populismo plebiscitario, di destra, di sinistra, o persino di stampo anarchico, come quello dei Cinque Stelle nel nostro Paese, che contesta gli Istituti fondanti delle democrazie liberali ed auspica sostanzialmente regimi autoritari, del tipo di quello cinese, i quali, nelle forme più diverse, stanno dilagando dal Sud America, dove esisteva già la grande tradizione peronista, al medio oriente e all’Africa, attraverso dittature, come quella iraniana, siriana, egiziana o quella, di stampo ottomano, della Turchia di Erdogan. Il contagio è arrivato in Europa, dilagando in Polonia ed Ungheria e penetrando in tutte le Nazioni dell’Est. Successivamente, attraverso la nascita di movimenti populisti o neofascisti, si è manifestato anche in Italia, Germania, Francia e persino nelle grandi democrazie di tradizione anglosassone, come gli USA e la Gran Bretagna con l’avvento di personaggi come Donald Trump o Boris Jonson.
Eravamo convinti che Il ventesimo secolo, con le sue tragiche guerre, avesse definitivamente aborrito i regimi dittatoriali e fatto percepire il privilegio di poter vivere all’interno di sistemi ispirati alla democrazia liberale, ma evidentemente nell’uomo ritorna sempre l’antico riflesso della ricerca del capo, del superuomo, del demiurgo, del dio nel cui nome anche il bene supremo della libertà può essere sacrificato. Si tratta solo di una ubriacatura? di un malessere passeggero? o stiamo precipitando verso un nuovo medio evo?
