
Partiremo, in questa rapida riflessione, da un concetto che dovrebbe essere già stato del tutto pacificamente acquisito nel nostro Paese, ormai: non si serve adeguatamente il bene comune ove si pongano nei posti di responsabilità di Società Pubbliche delle persone impreparate, ovvero -peggio ancora- del tutto ignare dello sviluppo di vita, soprattutto pregressa, delle medesime.
Perché la responsabilità morale consiste, innanzitutto, nella piena consapevolezza dei percorsi fatti e dei perfezionamenti acquisiti. Questo dovrebbe essere un preciso obbligo per chiunque sottoscriva un contratto apicale. Specie nel settore pubblico.
Quindi va acquisito prima questo concetto fondante: il ruolo di guida in una impresa pubblica, poiché essa è nata e vive con i soldi dei cittadini, deve ricomprendere (anche per sommi capi) la esatta percezione della sua ragione sociale.
Perché l’interesse economico di una tale azienda va sempre contemperato con gli interessi comunitari: che possono importare particolari evenienze, persino quelle non finalizzate alla ricerca del massimo profitto.
Seppure sia un po’ indigesto a un economista puro, ammettere questa “variabile” nella conduzione di una impresa pubblica (tariffe particolari, condizioni di sconto originali, sviluppo di relazioni pubbliche, rapporto con le sigle sindacali del personale, etc.etc), significa saper affinare una particolare abilità, che un manager privato non sempre possiede.
Percorsi economici e finanziari particolari; aspetti morali di contemperazione di tutte le istanze, anche territorialmente esigenti; la ricerca del giusto mix tra economia e politica, questo non è lavoro buono per tutti.
Infatti è assai labile la linea di confine che corre tra una forma di liberismo assoluto e un ragionato liberalismo economico-politico. Contemperare la convenienza aziendale con le indicazioni di linee-guida decise dal potere politico in rappresentanza dei territori non è assolutamente facile.
Bisognerà, altresí, convenire su di un altro punto.
Il perseguimento di utilità “sociale” potrebbe essere del tutto inutile ove non si sapesse quantificare -nello stesso istante- il grado di tolleranza economica della stessa, che va sempre rapportato al concreto risparmio che si conseguirebbe la comunità .
Nebulose ragioni di “bene comune” non dovrebbero mai venire poste quali pretesti perdelle azioni assolutamente dissipatorie del capitale dei contribuenti.
Lo Stato dovrebbe, cioè, adempiere una alta funzione programmatoria, di stimolo al meglio, con obiettivi e tempi -si sa- sempre diversi ed evolventi.
Potrebbe capitare che l’interesse collettivo a mantenere in vita una azienda pubblica, per quanto esso sia forte, non sempre e non necessariamente sia in grado di configurarsi come essenziale: sí da giustificare una qualsivoglia accettazione di costanti peggioramenti della situazione deficitaria.
Per decenni interi.
Perché perdite di esercizio consistenti (mio riassunto mentale scolastico) potrebbero prodursi: o in conseguenza della pratica di “prezzi politici”, che però dovrebbero essere pure riconosciuti esplicitamente e dichiarati alla pubblica opinione (che, di fatto, è il maggiore azionista); ovvero a causa di una qualche modalità di produzione, che comporta costi più elevati di quanto sia tollerabile (a parità di volumi e di qualità), per il bene medesimo.
Di che stiamo parlando?
Ma di Alitalia. Clearly.
