“La presunta superiorità antropologica dei comunisti”, è l’interessante saggio di Michele Gelardi, che si legge d’un fiato, scoprendo il rigore logico del giurista, la passione del liberale conservatore a tutto tondo, la personalità di un cultore di sociologia e psicologia.
Ogni capitolo del suo libro per tracciare il profilo del comunista, viene identificato con una parola: comincia col complesso di superiorità della sinistra, poi ne definisce il prototipo come moralista, giustizialista, ingenuo e supponente, burocratofilo, diffidente e sospettoso, che ambisce alla rendita di posizione e si rivela infine doppiopesista, classista, invidioso, pauroso, unidimensionale. Tutti questi aggettivi, che scandiscono i diversi momenti della narrazione, approfonditi limpidamente nel testo, spiegano le radici del complesso di superiorità del comunista, che rifiuta la concezione della società come spazio dove si può liberamente estrinsecare la genialità e la competitività di ciascun essere umano, in un contesto di libero mercato e di concorrenza, governato da un sistema di regole condivise, imposte da una legge generale ed astratta, uguale per tutti. Il comunismo o pseudo tale, dopo la maledizione della parola originale connessa alla caduta dei regimi dell’Europa Orientale, ha cambiato denominazione, assumendo quelle di progressista, sinistra, riformista, democratico. Sia pure attraverso nuove livree, descrive sempre l’aspirazione a costruire un burocratico sistema di redistribuzione della ricchezza, ancorché non si capisca creata da chi, ma sempre gestita da parte del sistema dei poteri pubblici.
Il tema sollevato da Gelardi nel suo interessante saggio, in effetti, è molto antico e risale, prima ancora che avesse successo l’ideale comunista, alle religioni. Tutte le forme di pensiero fideista, hanno bisogno di affermare una superiorità antropologica, che deriva dalla necessità di imporre ai propri seguaci un pregiudizio etico, che ne renda impossibile la contaminazione. Tale orientamento si rinviene agevolmente nella imposizione dogmatica di quelle monoteiste, che non si limitano alla affermazione del primato del divino e della vita eterna di carattere ultraterreno, ma impongono precetti e comportamenti, definiti apoditticamente inderogabili, anche per quella terrena. Storicamente tale rigidezza è stata scandita dall’intransigenza nei confronti di tutti i gruppi scismatici, dalle persecuzioni, e dalla violenza con cui da sempre sono state condotte e si conducono ancor oggi tutte le guerre sante. Il comunismo ha ereditato tale forma di intolleranza rispetto ai dubbi sulla verità imposta dai propri “testi sacri”, muovendo dal pensiero di Marx, reinterpretato in chiave idealistica e afforzato sotto il profilo etico filosofico da quello di Hegel. L’uomo per le religioni monoteiste, come per i seguaci del pensiero comunista, non rappresenta un valore assoluto in sé, ma è predestinato al compito di servire dio o la società, la quale, secondo il pensiero comunista, assume un valore trascendente e detta i precetti etici e sociali ai quali il suddito è chiamato ad obbedire per ottenere la necessaria elevazione ed il diritto ad una quota ridistribuiva della ricchezza. Da questa concezione dogmatica deriva l’idea perversa della superiorità antropologica, connessa alla aspirazione ad uno Stato etico, dotato di una finalità superiore per le propizie azioni, rispetto all’egoismo individualista, invece portato a considerare la intraprendenza come la ricchezza delle Nazioni.
La propaganda sovietica era tutta incentrata sulla superiorità di quel modello, poi fallito miseramente, non soltanto sul piano economico, ma anche sotto il profilo della crescita culturale di ogni singolo individuo, tanto da far precipitare dopo la Russia, come inevitabile conseguenza, nel neoautoritarismo di stampo zarista di Putin. Le identiche considerazioni si potrebbero fare per le forme attuali in cui si perpetua il comunismo, dalla perfida e chiusa dittatura della Corea del Nord a quella miserabile del tardo chavismo interpretato da Maduro in Venezuela. La medesima inclinazione alla cieca obbedienza, si registra anche nella grande Cina, che attraversa una fase di notevole sviluppo economico, grazie alla natura docile di quella sterminata popolazione, che è portata alla sottomissione ad un potere ritenuto salvifico e persino di natura divina, pronta a subirne la naturale pulsione autoritaria.
In Italia la teoria della superiorità antropologica fu elaborata da Enrico Berlinguer, che, da cattolico comunista, facilmente riuscì a riunire elementi di origine divina con altri di carattere sociale, per esaltare il rigore morale del “suo popolo”, sottolineando uno snobistico disprezzo verso i peccatori abbagliati dal mito della ricchezza delle società opulente, che in quegli anni appariva diffusa e vincente. Rispetto alla aspirazione dell’uomo di migliorarsi e crescere nella libertà, predicava l’uguaglianza e la protezione dei deboli e dei diversi, con l’intento di appiattire verso il basso tutta la società in una logica non produttiva, ma solo ridistributiva. Il capo del PCI muoveva dall’assunto apodittico di una superiorità etica, che diventava persino antropologica, secondo l’arbitrio di una burocrazia di partito obbediente e disciplinata. In conseguenza, nota Gelardi, cedono gli argini tra politica ed etica, nonché tra politica e diritto. Questo fa del comunista un moralista ed un giustizialista, incapace di comprendere i valori delle democrazie liberali, fondati sul rule of law, sul balance of powers, sul mercato, la crescita, la formazione culturale e tecnica, la valorizzazione del genio individuale.
L’ aberrazione di una concezione fondata su un pensiero unico, che aveva come presupposto la presunta uguaglianza di tutti gli esseri umani in un occidente produttivo ed in fase di grande sviluppo che premiava le diseguaglianze, quale aspirazione a migliorarsi, accelerò la decomposizione del PCI, ancor più della caduta del mito classista, sepolto sotto il crollo del muro di Berlino. Tuttavia, anche di fronte alla sconfitta della storia, quel patrimonio di precetti, fondati sull‘invidia e la sfiducia nel singolo individuo capace di produrre la ricchezza col proprio genio, dispregiativamente definito capitalista, ha generato nuovi movimenti, per perpetuarne il pensiero politico egualitario, privo di fantasia e fiducia nel prossimo. Nell’ultimo quarto di secolo ha assunto le più diverse denominazioni, ma sostanzialmente fa sempre riferimento al medesimo impianto ideologico ed alla identica idea di organizzazione politica, fondata sull’invidia sociale, anche se il termine di classe è andato in disuso. Quello che possiamo chiamare neocomunismo continua a coltivare il sogno di una società egualitaria, come surrogato di quella che un tempo veniva definita con l’espressione di dittatura del proletariato.
