LIBIA: VERSO IL 24 DICEMBRE

Di Daniele Avignone

 

Territorio martoriato dalle guerre civili interne, oggi la Libia si presenta come uno stato spaccato, reduce da una stagione – quella delle Primavere Arabe – che portarono il Paese nel caos. Il destino libico, rispetto ai vicini fu ben diverso: se dal 2011 per Tunisia e Algeria si avviò una transizione democratica, in Libia regnò il caos. Lo Stato, perso il suo leader autoritario, divenne terra di nessuno: gruppi jihadisti provenienti da tutta la regione nordafricana fecero della Libia un campo di addestramento, ausiliati dalla critica situazione governativa che vede anteposti i leader istituzionali e il leader ribelle Haftar. Una vera e propria contrapposizione tra governo Tripolino e ribelli della Cirenaica che spaccò definitivamente il Paese. Eppure, oggi si parla di stabilizzazione libica in vista delle elezioni del 24 dicembre. Elezioni assicurate dai Governi Europei e che, promette l’Onu, segneranno un nuovo destino per il Paese. Tuttavia, il problema della transizione verso uno Stato di diritto non è di semplice risoluzione: fino ad ora la Libia non ha mai goduto di una struttura liberale e democratica. Trattandosi di una macroarea che raggruppa tre stati diversi (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan), l’autoritarismo precedente aveva rappresentato l’unica via per unire il Paese libico, mai creando delle vere istituzioni e accentrando il destino delle proprie scelte nella figura di Gheddafi. La missione di “democracy-building” odierna è molto delicata. Istituzioni democratiche vacillanti possono solo destabilizzare il Paese e condurlo verso un autoritarismo allineato con Russia e Turchia, non a caso assenti alla Conferenza di Parigi. È necessario che l’Europa sia presente da qui ai prossimi 20 anni. Tempo minimo ma necessario per costruire delle istituzioni solide e durature che rispondano alle esigenze dei cittadini libici.

 

FUMATA BIANCA DA GLASGOW

Di Gabriele Volpi

 

Dopo trattative ad oltranza, è stato finalmente firmato all’unanimità il testo finale dell’accordo di Glasgow sulla COP26. Frutto di una serie di compromessi, ribadisce l’obiettivo di limitare l’innalzamento della temperatura media rispetto ai livelli pre-industriali a 1.5 gradi nel 2100, limitando le conseguenze catastrofiche che un aumento più corposo provocherebbe. Si prefissano milestones importanti, quali l’abbattimento del 45% delle emissioni di gas serra rispetto al 2010 entro il 2030, compensando i paesi in via di sviluppo con fondi specifici. Poco si parla dei metodi, rimessi ai singoli stati; in particolare, non si è cercato di dare spinta alla “riabilitazione” del nucleare, ingiustamente temuto dai più, che è dalla scienza ritenuta una risorsa pulita e sicura, preziosa per raggiungere gli obiettivi prefissati dall’accordo. Pur con difetti, l’intesa raggiunta ha una sua valenza, e non è solo il “blablabla” che personaggi come Greta provocatoriamente definiscono. Il dibattito, specie per questioni così importanti, è la via per compiere grandi rivoluzioni.

 

LA QUESTIONE BIELORUSSA

Di Diugar Enrique Madera Buscarini

 

La mia esperienza nella capitale Bielorussia, ad inizio del 2020, è stata molto inquietante. Per uno che proviene da un regime totalitario, come quello venezuelano, ha colpito moltissimo la premurosa accoglienza da parte delle autorità di Minsk e questo sinceramente vuole dire tanto. Non appena l’hostess ha aperto la porta dell’aereo mi sono trovato di fronte ad un funzionario con tanto di videocamera per registrare ogni passeggero che si trovava nell’aereo. Da quel momento, e fino al controllo dei passaporti che avviene in maniera decisamente meticolosa, mi sono imbattuto con altri cinque funzionari che sempre lungo il nostro percorso ci registravano. Questa brevissima esperienza può spiegare comprensibilmente uno dei tanti motivi per il quale l’UE ha imposto diverse sanzioni commerciali, e non solo, a Minsk dato che sono tante le ripetute violazioni dei diritti umani. Lukashenko, che dal 1994 iniziò a Governare ininterrottamente, rappresenta una grandissima sconfitta per tutte le Nazioni europee che lottano per la libertà dei loro cittadini ed è per questa lotta che ora l’UE affronta una delicata situazione. Diverse sono le spiegazioni che in questi giorni troviamo nelle principali testate dei giornali e delle riviste specializzate in Politica Internazionale. La gran parte cerca di inquadrare l’atteggiamento bielorusso dentro ai concetti di strategia ibrida e asimmetrica ma dobbiamo stare attenti a non confondere l’uno con l’altro. La Treccani definisce la guerra ibrida come una strategia militare, caratterizzata da grande flessibilità, che unisce la guerra convenzionale, la guerra irregolare e la guerra fatta di azioni di attacco e sabotaggio cibernetico mentre che quella asimmetrica viene spiegata come un conflitto non dichiarato, con notevole disparità di risorse militari o finanziarie e nello status dei due contendenti. Il contendente militarmente ed economicamente più forte deve difendersi da un avversario difficilmente individuabile, trovandosi in situazione di svantaggio. Da questa spiegazione vedrei l’atteggiamento bielorusso come una strategia militare in cui l’utilizzo e strumentalizzazione dei migranti porta ad un conflitto non dichiarato che costringe alla implementazione di grande flessibilità nella gestione dello stesso. Risulta molto difficile di comprendere perché una Nazione come quella bielorussa, che si caratterizza per realizzare rigidi controlli d’ingresso in essa (e la mia esperienza personale fa di prova), permetta con tanta libertà e flessibilità l’approdo di diversi aerei commerciali provenienti dalla Turchia con cittadini iracheni, siriani ed afghani. Queste persone hanno speso migliaia di euro per inseguire il sogno di un ingresso facile in Europa: ma ora sono diventati l’arma di Lukashenko per ricattare Bruxelles. Questo ricatto con armi non convenzionali, come l’utilizzo dei migranti, a quanto pare punta a fare pressione sui Paesi europei per cancellare le sanzioni e allo stesso tempo prova a destabilizzare l’Unione Europea. Quest’ultimo punto è molto delicato poiché non più di due mesi fa la Polonia esponeva la possibilità di realizzare un muro per bloccare l’immigrazione illegale e non è un caso che con questa situazione Lukashenko abbia ulteriormente inasprito i rapporti tra i vertici dell’UE, contrari ad esso, ed alcune Nazioni della comunità dei 27. Insomma, le sfide sono tante ma considero che questa situazione potrebbe darci l’opportunità di affrontare argomenti troppo importanti come sono: una politica di difesa comunitaria unica, la rivisitazione del Trattato di Dublino e lo scioglimento dell’ultima dittatura europea (ultima per modo di dire perché la Russia non scherza). Non voglio neanche ridurre i problemi dell’Unione soltanto a questi tre punti e tanto meno ignorare la sofferenza umana di quelle persone che sono ammassate al confine della Polonia, che tra l’altro in questo momento sono la priorità, ma non possiamo non cogliere l’opportunità di approfondire problemi che ci stiamo portando avanti da tanto tempo e sui quali i cittadini europei aspettano soluzioni concrete.

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