La vedova scaltra  (prendendo il titolo da una commedia di Carlo Goldoni) era una rubrica settimanale de IL TRAVASO DELLE IDEE, un periodico satirico del primo Novecento, che era presente in edicola anche negli anni iniziali del secondo dopoguerra mondiale.

La vignetta rappresentava un’anziana vedova, definita appunto “scaltra” (e giustamente desiderosa di campare ancora molto a lungo) che settimanalmente chiedeva al Signore di essere accolta accanto all’anima benedetta del marito…ma solo se si fosse verificato un evento di tale eccezionalità da essere considerato sostanzialmente impossibile.

Il Travaso delle idee non si pubblica più ma si può immaginare che quella scaltra donna, oggi, per allontanare notevolmente il tempo della sua chiamata nell’aldilà avrebbe potuto porre la condizione di “voler conoscere un solo uomo politico italiano degno del nome e cioè sensibile al rispetto più rigoroso e stretto delle norme costituzionali e capace di assolvere al suo ruolo senza rendere palese la sua assoluta inadeguatezza alla funzione da svolgere”.

Domanda: perché quella condizione, allo stato delle cose, emerso in occasione dell’ultima elezione del Capo dello Stato, sarebbe  del tutto irrealizzabile?

Perché nessun uomo politico (sensibile ai problemi della polis) si è rivelato  degno del nome, osservando comportamenti di necessario rigore costituzionale.

Chi fa politica può certamente ritenere, per esempio, che la nostra Costituzione non sia veramente la “migliore del mondo” (costituendo l’innesto di norme ispirate ad assolutismi religiosi e filosofici su un tessuto normativo di diffusa  contrarietà a quell’idea di libertà già conculcata dal precedente regime fascista) e può anche sentirsi  impegnato in una battaglia per cambiarla: deve, però, finchè essa resta in vigore, osservare, in maniera scrupolosa,  le sue norme nel senso più aderente allo spirito che le ha dettate.

Orbene, doveva essere chiaro, per dirne una,  che, pur non essendovi alcuna norma costituzionale che in modo esplicito la vietasse, la rielezione di un Presidente della Repubblica fosse da ritenere, per interpretazione volta alla sostanza, almeno “sconsigliabile”, visto che la nostra carta fondamentale è stata la conseguenza di un referendum contrario alla permanenza della staticità dell’istituto monarchico.

La  previsione di un generoso lasso di tempo (settennale) volta a  evitare traumi in una popolazione abituata alla continuità monarchica doveva essere ritenuta più che sufficiente.

Ancora: a un uomo politico degno di tale nome, doveva apparire quanto meno costituzionalmente elegante che in un Paese che ha già sovraordinato il potere giudiziario agli altri due, si osservasse rigorosamente il principio della non trasmigrabilità da un potere all’altro e meno che mai da un potere occulto con licenze bondiane da 007  a quello palese e alla luce del sole definito da leggi e non da circolari segrete.

Ed invece, tutto ciò non è avvenuto. Persino certi pentimenti tardivi di chi non ha votato per la rielezione del Presidente scaduto dalla carica sono stati preceduti da un malinteso femminismo da rotocalco.

A dispetto della ritenuta perfezione della nostra Carta fondamentale, con salti acrobatici da esperti  trapezisti  due personaggi che già occupavano  una poltrona istituzionale di grande importanza hanno tentato  il guizzo rocambolesco e un terzo era pronto a provarci, se chiamato.

Queste amare considerazioni, per legge di contrappasso, richiamano alla mente immagini ironiche divertenti.

Mussolini aveva capito che  gli Italiani non condividevano il motto di De Coubertain per le Olimpiadi e che come gli ultras del calcio vogliono sempre  “Vincere” (da lui definita addirittura una  “parola d’ordine,  d’una suprema volontà”).

Senza ricordarsi di come era finita quella ducesca  aspirazione alla vittoria, i grandi elettori dell’ultima elezione presidenziale (conclusasi come sappiamo), si sono posti (ciascuno per la sua parte) lo stesso obiettivo: “vincere”, anche riducendo a brandelli avversari e alleati o “compagni di cordata”.

Poco importava loro se per mettere a segno una  battaglia vittoriosa si chiamasse e si arruolasse, a guisa di mercenario,  un condottiero notoriamente appartenente alla parte avversa. Il rischio dell’eclatante contraddizione sarebbe stato coperto dai giornalisti della propria fazione che avrebbero parlato di “scacco matto” al nemico, di “mossa del cavallo”, di “goal imprendibile e di rara acrobazia”.

Le cose, però, non sono andate per il verso ritenuto “giusto” e nonostante la sforzo di prezzolati pennivendoli o di dozzinali retori (che per le loro concioni sarebbero stati sonoramente fischiati anche ad Hyde Park Corner, luogo consentito al cimento oratorio dei folli) la guerra per l’elezione del Presidente si è conclusa con la sconfitta di tutti. Un unico desolato campo di macerie ha visto, per fortuna solo in senso metaforico e figurato, i corpi dilaniati e senza vita dei componenti dei due eserciti in guerra che pure erano scesi in campo attraversando i corridoi del Parlamento fino all’aula  “con orgogliosa sicurezza”.

In conclusione: dopo una tale “Caporetto”, la preghiera della “vedova scaltra” avrebbe centrato l’obiettivo. Il Signore, per quanto “onnipotente” non avrebbe avuto alcuna  possibilità di trovare un uomo politico degno di tale nome e avrebbe dovuto ritardare il congiungimento nell’aldilà dell’anziana donna con l’amato coniuge.

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