di Pippo Della Corte
Se è vero che l’Italia è la patria dei cento campanili è ancor più vero che essa è la casa dei mille piatti tipici.
Istantanea che ben fotografa la variegata mensa tricolore. Mentre su spinta delle multinazionali del food (quasi tutte made in Usa) si tenta di voler creare anche a tavola una mortificante omologazione, i territori rispondono con le proprie specificità culinarie. Alimenti di grande pregio che senza clamore e senza grida stanno sconfiggendo i maldestri tentativi dei grandi gruppi industriali che vorrebbero globalizzare odori, sapori e colori. Scelta che nei fatti è quotidianamente contrastata grazie a chi non ha mai mollato la presa e ha elevato a simbolo identitario vino, olio, pasta, pane, pizza, salumi, formaggi, mozzarella, ortaggi e verdure. Per non parlare poi dei dolci che alzano e di parecchio l’asticella del valore gastronomico nazionale, Sicilia e Campania su tutti (senza nulla togliere agli altri).
La tutela della storia, della memoria di un luogo, della sua gelosa conservazione passa senza ombra di dubbio attraverso il rilancio delle pietanze tradizionali spesso figlie di un passato contadino non del tutto scomparso. È chiaro che le popolazioni di quei Paesi in cui la cucina non è ricca e articolata tendono quasi in maniera naturale ad assecondare le nuove perniciose tendenze alimentari. Ciò è vero nel Centro e nel Nord Europa. Lì dove c’è meno valore alimentare trovano più spazio le nuove tendenze del gusto sponsorizzate da gruppi che intravedono notevoli guadagni a scapito spesso della salubrità degli alimenti. Il Belpaese sembra resistere nel suo resiliente atteggiamento capace di contrastare con determinazione i brutali attacchi che su spinta delle lobbies vorrebbero colpire il cibo e quindi i territori di riferimento. Da qui un naturale sistema di autodifesa che per paradosso appare ancor più forte di qualche decennio fa quando il fascino seduttore dei cibi pronti riuscì ad entrare con forza nel mercato del consumo di massa.
Non è un caso, infatti, che l’Italia ancora oggi sia internazionalmente riconosciuta cme patria del buon bere e del buon mangiare. Luogo magico in cui il gusto per la ricercatezza alimentare, sebbene nella sua semplicità, trova una esaltazione non comune al di là della moda gourmet destinata a scomparire. Senza fare barricate e senza inutile frastuono i territori paiono intenzionati a proseguire la loro battaglia identitaria per difendere ciò che di gustoso e salutare viene prodotto con buona pace della filiera commerciale che spesso si attarda in politiche di marketing che non sempre trovano il realtivo consenso tra i consumatori. Pensare di sostituire quasi del tutto le bontà tipiche con prodotti confezionati, imbustati, congelati e precotti è pura follia.
La partita è aperta e su grande scala l’industria riuscirà a garantirsi i profitti crescenti ma non sarà mai capace di eguagliare le prelibatezza di ogni singola realtà. I territori, che in molti casi peccano nell’organizzazione e nelle strategie di vendita, nel corso del tempo si sono adattati agli eventi riuscendo camaleonticamente a sopravvivere in una impari lotta contro il sistema globalizzato del consumismo. A dare man forte a questo microcosmo spontaneo e radicato anche le sagre paesane, presidi antropologici del mondo che fu, sentinelle a tutela delle tipicità e della gastronomia locale. Certo con il passare del tempo sarà sempre più difficile riuscire a resistere ma l’esperienza degli anni recenti racconta di una capacità imprevista nel contrastare usi e costumi imposti dall’alto e tutelati dalla solita politica politicante più attenta alle fonti di finanzimaneo che ai territori da cui deriva (o dovrebbe derivare) la propria necessaria legittimazione. Da Nord a Sud, dalle aree interne a quelle costiere, dalle rinomate città d’arte ai piccoli borghi sono centinaia i piatti tipici, forza trainante del made in Italy e di un turismo nuovo basato sulla ricerca del buono e del bello.
