Stati Uniti d’America, aprile 1865. In seguito all’assassinio del presidente americano Abraham Lincoln, otto persone, tra cui una donna, Mary Surrat (Robin Wright), vengono accusate di aver cospirato contro di lui. Quest’ultima, proprietaria di una pensione nella quale l’amato figlio John (Johnny Simons) e l’attore filo-sudista John Wilkes Booth (Toby Kebbel) s’incontrarono realmente per pianificare anche l’omicidio del vice-presidente Andrew Johnson e del segretario di stato William Henry Seward, viene difesa dal giovane eroe nordista Frederick Aiken (James McAvoy), scelto dall’avvocato e senatore Reverdy Johnson (Tom Wilkinson). Nonostante la sua iniziale resistenza a sostenere la donna, perché profondamente sicuro della sua colpevolezza, decide alla fine di opporsi strenuamente al ferreo, ma corrotto tribunale di guerra, che tenta e vuole in tutti i modi punirla, malgrado la sua innocenza.

Ottavo film per il regista statunitense Robert Redford, che decide, in questa sua ultima fatica, presentata lo scorso settembre all’International Film Festival di Toronto, di restituirci un legal thriller sullo sfondo dell’America post-secessione, ripercorrendo la vicenda di Mary Surrat, condannata all’impiccagione in seguito alla sentenza del tribunale militare che la giudicò colpevole di complicità con gli assassini di Lincoln, Johnson e Seward. La Surrat, di simpatie filo-sudiste, è qui rappresentata come un’Ifigenia di fine ‘800, vittima sacrificale di poteri e decisioni più grandi di lei, e in questo caso delle alte sfere dell’ipocrita giustizia americana, alla ricerca angosciata di un capro espiatorio, di un colpevole, anche, e come proprio accadde a scapito della realtà, per calmare un’opinione pubblica fortemente perturbata e un fetta di popolo, quello sudista, tutt’altro che esultante per l’unità raggiunta.

Il liberal-ambientalista Redford, nonostante l’affascinante fotografia in tinta seppia, capace di rendere al meglio l’atmosfera americana dell’ottocentesca Savannah, ci rifila un altro, l’ennesimo polpettone politically correct all’americana, colmo di retorica classica fino quasi a soffocare, per non parlare della spessa patina di didattismo che avvolge l’intera pellicola. Certo, non siamo ai livelli del mediocre revisionista Oliver Stone, ma poco ci è mancato.

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