3. I confini dell’ammissibilità nella giurisprudenza della Corte Costituzionale
A parte ciò, dal punto di vista strettamente giuridico, che è quello che qui interessa, la fase più delicata è certamente costituita dal vaglio della Corte Costituzionale, che è chiamata a valutare l’ammissibilità del quesito referendario.
I giudici della Corte sono chiamati ovviamente a verificare che le norme di cui si propone l’abrogazione non rientrino nelle categorie espressamente indicate dall’art. 75, comma 2 Cost. (o non siano legate a quelle leggi in modo consustanziale).
Tuttavia, nel tempo, la Corte ha indicato anche ulteriori criteri in base ai quali condurre l’esame.
Il primo organico intervento può essere considerato quello della sentenza n. 16 del 07 febbraio 1978, allorché, valutando unitariamente gli otto referendum allora proposti sulle più varie materie, nessuna delle quali tuttavia riguardante una legge elettorale di un organo costituzionale, la Corte ebbe modo di precisare, “in via preventiva e generale, i fondamenti, gli scopi, i criteri del giudizio riguardante l’ammissibilità delle richieste di referendum: al fine di tracciare un quadro unitario di riferimento, entro il quale si possano coerentemente effettuare le singole valutazioni che la Corte stessa deve in questa sede svolgere”.
Ritenendo inammissibili quattro di quelle proposte referendarie, ed invece ammettendo le altre quattro, la Corte nell’occasione affermò alcuni principi fondamentali, ritenendo in particolare che sono inammissibili:
a. le richieste contenenti “una tale pluralità di domande eterogenee, carenti di una matrice razionalmente unitaria”;
b. le richieste referendarie che mirino ad abrogare (anche solo in parte) norme di rango costituzionale “come pure gli atti legislativi dotati di una forza passiva peculiare (e dunque insuscettibili di essere validamente abrogati da leggi ordinarie successive)” ;
c. ed ancora, le richieste “aventi per oggetto disposizioni legislative ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato”;
d. ed infine, ferme “le cause di inammissibilità testualmente descritte nell’art. 75 Cost…….vanno sottratte al referendum le disposizioni produttive di effetti collegati in modo così stretto all’ambito di operatività delle leggi espressamente indicate dall’art. 75, che la preclusione debba ritenersi sottintesa”.
Ai principi dettati nella sentenza 16/78 si richiamò espressamente richiamata la Corte allorché venne chiamata a pronunziarsi sull’ammissibilità dei referendum proposti nel 1986 e denominati “per la Giustizia giusta” da quel Comitato Promotore, del quale, tra gli altri, era parte l’intera Segreteria Nazionale del PLI di allora (Biondi, Morelli, Palumbo, Patuelli), unitamente ad esponenti radicali e socialisti.
Nella sentenza n. 29 del 03 febbraio 1987, la Corte, nel respingere in particolare la richiesta di referendum per l’abrogazione delle norme riguardanti l’elezione della quota togata del Consiglio Superiore della Magistratura, affermò due specifici principi, stabilendo in particolare che:
e. “Come il legislatore rappresentativo ispira e coordina la sua volontà ad un oggetto puntuale, così la volontà popolare deve potersi ispirare ad una ratio altrettanto puntuale. Il quesito referendario è dotato di siffatta ratio quando in esso sia incorporata l’evidenza del fine intrinseco all’atto abrogativo. Dinanzi ad una norma elettorale, la pura e semplice proposta di cancellazione, insuscettibile di indicazioni desumibili da meri riferimenti al sistema, non è di per sé teleologicamente significativa. L’ampia gamma di sistemi elettorali, la loro modulazione ed ibridazione, impedisce che si instauri l’alternativa tra l’oggetto di cui si vuole l’eliminazione ed il suo contrario. L’assenza di manifesta e chiara alternativa impedisce che il voto dei cittadini si renda con quella consapevolezza nella scelta, che è irrinunciabile requisito di un atto libero e sovrano di legiferazione popolare negativa”.
f. “Gli organi costituzionali o di rilevanza costituzionale non possono essere esposti all’eventualità, anche soltanto teorica, di paralisi di funzionamento. Per tale suprema esigenza di salvaguardia di costante operatività, l’organo a composizione elettiva formalmente richiesta dalla Costituzione, una volta costituito, non può essere privato, neppure temporaneamente, del complesso delle norme elettorali contenute nella propria legge di attuazione. Tali norme elettorali potranno essere abrogate nel loro insieme esclusivamente per sostituzione con una nuova disciplina, compito che solo il legislatore rappresentativo è in grado di assolvere”.
Questi due principi (consapevolezza del voto popolare e indefettibilità delle norme elettorali degli organi costituzionali), che poi verranno più volte riaffermati in successive analoghe occasioni, sono da allora divenuti fondamentali per potere valutare l’ammissibilità teorica di ogni referendum in materia di leggi elettorali, in particolare di quelle riguardanti il Parlamento della Repubblica.
Da quanto precede, tuttavia, non è dato desumere che ogni referendum in materia di legge elettorale di organi costituzionali sia di per sé inammissibile.
E’ noto in proposito come la Corte, nel tempo, sia tornata più volte ad affrontare la materia, in particolare con la sentenza n. 47 del 02 febbraio 1991, che respinse il primo ed il terzo dei quesiti referendari proposti dal primo Comitato Segni (quello per l’introduzione di un sistema prevalentemente maggioritario per l’elezione del Senato e quello per generalizzare il sistema maggioritario per l’elezione dei consigli comunali), tuttavia ammettendo il secondo dei quesiti (quello sulla c.d. preferenza unica e nominativa per l’elezione della Camera).
In particolare – e prescindendo da altre statuizioni in ordine alla presunta inclusione (esplicita o implicita) delle leggi elettorali per il Parlamento tra quelle escluse in via di principio da ogni iniziativa referendaria – la Corte, per contestare la tesi di chi instava per il rigetto tout court dell’iniziativa referendaria in base alle statuizione della sentenza 29 del 1987, ebbe modo di precisare che: “Un’interpretazione di tale sentenza nel senso che essa precluderebbe ogni iniziativa referendaria avente per oggetto una legge elettorale, andrebbe al di là degli effettivi contenuti e significati della sentenza stessa. Muovendo dall’indiscutibile premessa che…. le leggi elettorali relative alla costituzione ed al funzionamento di organi costituzionali o aventi rilevanza costituzionale sono da ricondurre fra le leggi costituzionalmente necessarie e non tra le leggi a contenuto costituzionalmente vincolato, la sentenza 29 del 1987 è pervenuta ad una conclusione di inammissibilità non in forza di una generale esclusione della materia elettorale, ma in forza di altre due concorrenti ragioni: l’assenza di una finalità intrinseca al quesito lesiva della consapevolezza del voto, e l’indefettibilità della dotazione di norme elettorali”.
Com’è noto, il referendum su quell’unico quesito residuale per l’introduzione della preferenza unica per l’elezione dei deputati, da molti sottovalutato (ma non, ad onor del vero, dall’allora Segretario del PSI on. Craxi), effettivamente si tenne, con esito largamente favorevole.
Ne seguì, a breve distanza di tempo, la nuova iniziativa referendaria del Comitato Segni per l’abrogazione di alcune norme della legge elettorale del Senato, il cui quesito venne questa volta dichiarato ammissibile dalla Corte con la sentenza 04 febbraio 1993 n. 32, ed il cui esito fu ancora una volta largamente favorevole.
Nel generale discredito della classe politica,che accompagnò le ultime fasi della Legislatura eletta il nell’aprile del 1992, il Parlamento si indusse ad approvare le leggi del 4 agosto 1993 n. 276 (per il Senato) e n. 277 (per la Camera), che, introducendo sostanziali innovazioni al DPR 361/1957 per l’elezione della Camera ed alla L. 6 febbraio 1948 n. 29 per l’elezione del Senato (queste ultime poi trasfuse nel T. U. approvato con D. Lgs. 533/1993), innovarono profondamente la normativa elettorale introducendo un sistema prevalentemente maggioritario per l’elezione delle Camere (il c.d. Mattarellum, dal nome del suo ideatore on. Mattarella), dando così luogo a quella che ancora oggi, alquanto impropriamente, siamo soliti chiamare la “seconda repubblica”.
4. Il referendum come fonte del diritto
A proposito del referendum, occorre soffermarsi su due aspetti in particolare.
Il primo è costituito dalla sua natura giuridica.
Va segnalato infatti come la dottrina dominante, in passato come oggi, qualifichi il referendum come fonte del diritto, attribuendo dunque all’istituto natura normativa a tutti gli effetti; la maggioranza degli autori, in più, colloca la consultazione (o, meglio, il suo risultato) tra le fonti primarie del diritto, più esattamente tra gli atti con forza di legge, vuoi per la collocazione nella sezione della Costituzione dedicata alla «formazione delle leggi», vuoi perché l’esito abrogativo del referendum è promulgato al pari delle leggi (Paladin[1]), vuoi perché è inimmaginabile l’abrogazione di una legge ad opera di una fonte di rango inferiore (Crisafulli[2], Sandulli[3]), vuoi perché del referendum – al pari delle leggi – si specifica che non può incidere sulle norme costituzionali (Zagrebelsky[4]).
Non sfugge, peraltro, che i costituenti hanno dato all’elettorato il solo potere di abrogare determinate disposizioni, senza poter introdurre testi prima non esistenti (non accogliendo l’opzione di un referendum schiettamente propositivo): in questo modo il potere legislativo (negativo) riconosciuto al popolo risulta inevitabilmente ridotto rispetto a quello (positivo e negativo) del Parlamento, cui secondo alcuni (Cocozza[5]) non può essere equiparato.
Per certi studiosi (Sorrentino[6]) anche la sola abrogazione permette di dare «una diversa valutazione giuridica a certe fattispecie» attraverso l’interpretazione, per cui il carattere normativo dell’istituto referendario non è in discussione.
Parte della dottrina (in particolare Chiola[7]) ha preso le mosse da ciò per etichettare il referendum come «strumento del controllo politico popolare sull’operato del Parlamento», piuttosto che come atto legislativo vero e proprio, configurandosi dunque come mezzo di sanzione di determinate scelte compiute dalle Camere, senza incidere sulla titolarità e l’esercizio della funzione legislativa che resterebbe esclusiva del Parlamento.
In realtà, sembra che non ci sia alcuna incompatibilità tra la funzione politico-istituzionale dell’istituto referendario (il controllo) e la sua natura normativa, potendo i due aspetti tranquillamente coesistere.
5. L’abrogazione
L’effetto tipico del referendum è l’abrogazione delle disposizioni di legge indicate dal quesito.
In generale ci si riferisce all’abrogazione come «l’effetto che un atto legislativo produce rispetto a un atto legislativo preesistente, ponendo fine alla sua efficacia» (Zagrebelsky[8]), sia che si tratti di abrogazione espressa (se la legge successiva dichiara apertamente che una norma già in vigore cessa di avere efficacia) sia che si tratti di abrogazione tacita (se le norme tratte dal nuovo testo sono incompatibili con quelle precedenti oppure se la nuova legge regola l’intera materia della legge più risalente).
Gran parte della dottrina si trova concorde sul fatto che una vittoria dei «sì» in una consultazione referendaria produrrebbe come effetto un’abrogazione tacita delle disposizioni (dunque del testo) indicate dal quesito, che la legge richiede di indicare con chiarezza. Non manca chi, in ossequio alla sentenza 68/1978 della Consulta, ritiene che l’oggetto del referendum, più che riferirsi alle specifiche disposizioni della legge in questione, vada riferito al significato complessivo della normativa, e quindi alle scelte ed agli scopi perseguiti dal legislatore parlamentare (dunque alle norme).
Un altro punto chiave legato all’abrogazione riguarda la cd. normativa di risulta, che è il quadro normativo che deriva a seguito dell’intervento referendario.
La scelta “secca” tra abrogazione della norma e mantenimento dello status quo (senza spinte propositive), specie secondo gli autori che non vedono il referendum come atto legislativo, non permetterebbe di sostenere che il popolo abbia “voluto” anche quella determinata normativa di risulta (Marcenò[9]): l’abrogazione produrrebbe così una sorta di “vuoto” legislativo, conseguenza automatica di un voto popolare ma non frutto di una consapevole e meditata scelta parlamentare.
Ciò non toglie che autorevole dottrina (S. Pugliatti [10]) abbia considerato a lungo il referendum come «atto legislativo», in quanto proveniente dal popolo di cui il Parlamento è (solo) il rappresentante; in quest’ottica, e sulla base della tradizione romanistica del processo legislativo, sarebbe possibile ricostruire l’immagine di un popolo che, aderendo alla proposta dei promotori della consultazione, scelga di abrogare una disposizione per ottenere un determinato risultato normativo (a patto, naturalmente, che gli elettori siano correttamente informati e che la partecipazione al referendum sia significativamente alta, dal che la necessità di uno specifico quorum per la sua validità).
(segue)
1 L. Paladin, Le fonti del diritto italiano, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 272.
2 V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale (2° edizione), Cedam, Padova, 1993, p. 117.
3 A. Sandulli, Fonti del diritto (voce), in Novissimo digesto italiano, vol. VII, Utet, Torino, 1964, p. 529.
4 G. Zagrebelsky, Il sistema costituzionale delle fonti del diritto (2° edizione), Utet, Torino, 1984, p. 188.
5 V. Cocozza, Potere abrogativo referendario e potere abrogativo del Parlamento, in Pol. Dir. 1981, specie 519.
6 F. Sorrentino, Le fonti del diritto italiano, Cedam, Padova, 2009, pp. 236-241.
7 C. Chiola, Il referendum come atto legislativo: conflitto tra richieste e limiti, in Pol. Dir. 1987, p. 335.
8 G. Zagrebelsky, op. cit.
9 V. G. F. Marcenò, Il concetto di abrogazione parziale. Raffronto tra l’abrogazione legislativa e l’abrogazione referendaria, pubblicato su www.jus.unitn.it/cardozo/obiter_Dictum(valeria.htm.
10 S. Pugliatti, Abrogazione (voce), in AA.VV., Enciclopedia del diritto, Giuffré, Milano, 1958, p. 142.
