9. C’è spazio per la reviviscenza del Mattarellum?

Vista la situazione, non c’è da stupirsi che siano già stati fatti tentativi per cambiare il contesto normativo elettorale, e nell’impossibilità di modificare le norme in Parlamento, si è cercato di mettere in campo anche lo strumento referendario.

Stante la struttura della legge vigente, sostanzialmente immodificabile se non in pejus , l’unica strada sembra allora quella di ottenere, attraverso l’approvazione di uno specifico quesito referendario, tanto l’abrogazione dell’attuale legge elettorale (porcellum) quanto la contemporanea reviviscenza della disciplina precedente (mattarellum).

Anche coloro che non sono mai stati entusiasti del sistema misto introdotto dal mattarellum – 75% in collegi uninominali maggioritari a turno unico, 25% in circoscrizioni a lista bloccata – sono generalmente disposti a concedere che il ritorno al sistema elettorale approvato nel 1993 è «l’ipotesi tra tutte meno dannosa» (Cheli[18]): pur con i suoi limiti e risultando per alcuni meno gradita di altri sistemi elettorali, «la legge Mattarella ha comunque garantito l’alternanza democratica, ha accompagnato l’evoluzione del sistema politico italiano in senso bipolare, ha assicurato un rapporto reale fra gli eletti e il territorio grazie al collegio uninominale e […] ha costretto i partiti a fare i conti con le preferenze dell’elettorato nella scelta dei candidati al Parlamento» (Bassanini[19]).

Se molti guardano con interesse all’eventuale reintroduzione del sistema elettorale del 1993 per via legislativa, c’è tuttavia maggiore prudenza circa la possibilità di conseguire tale risultato per via referendaria.

Posto che per qualcuno «lo strumento referendario è incapace di innovare razionalmente su argomenti così complessi come il tema elettorale» (Lanchester[20]), le perplessità su un’eventuale reviviscenza del Mattarellum investono essenzialmente un aspetto concettuale e uno strumentale.

Quello concettuale riguarda la distinzione già nota tra abrogazione e annullamento (rectius: nullità).

Si ritiene infatti che solo nel secondo caso sarebbe possibile fare rivivere le norme che le disposizioni abrogatrici avevano eliminato; essendo l’abrogazione l’effetto tipico del referendum, il voto popolare non porterebbe alcuna reviviscenza (Cheli[21]).

Sul piano strumentale, i dubbi hanno riguardato la individuazione del quesito che puntasse all’abrogazione totale del porcellum.

Secondo vari critici, la scelta non passerebbe il vaglio di ammissibilità della Consulta sia perché la legge elettorale è una legge costituzionalmente necessaria e, dunque, non può essere abrogata in toto (Capotosti[22]), sia perché di fatto quella stessa legge contiene disposizioni di varia natura (sostitutive, integrative, soppressive) e un quesito che ne chiedesse l’abrogazione in blocco potrebbe essere accusato di non omogeneità.

Altri (Morrone[23]) parlano di eterogeneità per stigmatizzare l’eventuale coesistenza, nello stesso quesito, dell’abrogazione e della reviviscenza; di nuovo Morrone[24] sottolinea come, ove mai ci fosse spazio per parlare di reviviscenza, essa non sarebbe automatica, essendo dunque rimessa ai vari interpreti; altri ancora (Ceccanti[25]) fanno notare che sarebbe stata la Corte costituzionale, con la sentenza 40/1997, a bocciare qualunque ipotesi di ripristino di norme abrogate.

Pur nel rispetto delle opinioni viste prima, altri autori preferiscono invece riflettere in base ad altri percorsi che, a date condizioni, sembrano aprire alla possibilità della reviviscenza delle norme abrogate e quindi, nel caso di specie, alla resurrezione del mattarellum.

Gran parte delle riflessioni è legata alla particolare natura del porcellum, che, come per altro avvenuto con quasi tutte le precedenti modifiche alle norme elettorali, non ha ridisciplinato ex novo in maniera organica il sistema elettorale della Camera, ma ha solo corretto e integrato la disciplina previgente.

Proprio per ciò, un referendum che colpisse mortalmente quella legge, in quanto atto legislativo abrogativo di un precedente atto abrogativo, non potrebbe che riportare in vita l’atto originariamente abrogato (Giorgis, suggerisce di ammettere in ogni caso la reviviscenza quando i referendum riguardino leggi costituzionalmente necessarie, per non paralizzare il funzionamento dell’organo[26]).

Onde evitare che il quesito possa essere considerato eterogeneo o potenzialmente responsabile di un vuoto normativo inaccettabile, alcuni autori (Luciani, Pizzorusso[27]) hanno proposto di proporre l’abrogazione solo delle disposizioni “sostituenti” (piuttosto che di quelle “sostitutive”) del porcellum, e ciò sia per garantire una maggiore omogeneità al quesito, sia perché quelle appena considerate si pongono in effetti come disposizioni meramente abrogatrici e si prestano meglio a creare l’effetto della reviviscenza del sistema del 1993.

Altra parte della dottrina (Mangiameli[28]) sostiene comunque l’abrogazione integrale, asserendo che l’atto legislativo referendario, in subjecta materia, accanto alla funzione meramente abrogativa, assume anche per relationem il contenuto della legge abrogata in precedenza.

Per giungere a questo risultato, si sfrutterebbe un sentiero aperto dalla sentenza della C.C. 47/1991, attraverso la quale di fatto la Consulta avrebbe riconosciuto effetti positivi e propositivi ai referendum elettorali.

Questa posizione terrebbe conto anche delle osservazioni formulate da autorevole dottrina (Chieppa[29]), secondo cui «la Corte ha tenuto sempre presente che le leggi elettorali politiche (per quanto riguarda i meccanismi del sistema elettorale) non hanno un’effettività di protezione costituzionale con mezzi di reazione giustiziabili, attraverso i giudizi di legittimità costituzionale», per cui gli appuntamenti referendari sarebbero «unico strumento di democrazia in mano al cittadino elettore, per spingere il legislatore a reintervenire e a cambiare».

In ogni caso, sempre parlando dell’effetto di reviviscenza, esso per alcuni studiosi (Cerri) dovrebbe essere ammesso ogni volta che l’abrogazione – con qualunque mezzo avvenga, referendum compreso – non solo investa le singole disposizioni abrogative (soluzione già vista), ma anche quando essa riguardi la legge nella sua interezza e, con essa, la scelta abrogativa che ne stava alla base: in questo modo, il referendum sul porcellum potrebbe trovare spazio.

Tuttavia, concludendo sul punto, occorre prendere atto che la possibilità della reviviscenza del mattarellum in caso di abrogazione referendaria del porcellum non appare condivisa dalla maggioranza della dottrina che si è interrogata sull’argomento.

10. E c’è spazio per la dichiarazione di illegittimità costituzionale del Porcellum?

Se le cose stanno come abbiamo appena detto, occorre a questo punto chiedersi se ci sia eventualmente qualche spazio per portare all’attenzione della Corte Costituzionale gli aspetti critici dell’attuale legge elettorale, ovvero anche di una successiva ed eventualmente peggiorativa legge in materia.

È noto in proposito che le leggi in materia di elezioni politiche si sottraggono alla giustizia costituzionale, per cui si è addirittura parlato di «zone d’ombra» o «zone franche» (Siclari, Costanzo, Biondi, Pizzorusso[30]), in cui il giudizio di costituzionalità oggi non riesce ad arrivare per l’inesistenza di un percorso giurisdizionale in grado di attivare il controllo di costituzionalità.

E’ noto infatti che l’art. 66 della Costituzione stabilisce che “Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità ed incompatibilità”, e che tale norma, per come è stata sin qui interpretata, attribuisce al Foro domestico, salvo il preliminare intervento amministrativo degli Uffici Elettorali, l’esclusiva giurisdizione anche in materia di procedimento elettorale preparatorio, con riferimento quindi a tutta la fase elettorale, a partire dal deposito dei simboli e sino alla proclamazione dei risultati.

A confermare la preclusione verso ogni possibilità di giurisdizionalizzare una qualsiasi controversia in materia di elezioni politiche è intervenuta la Cassazione civile, con la sentenza delle SS. UU. del 6 aprile 2006 n. 8118, che, in ossequio all’art. 66 Cost. ed in applicazione dell’art. 87 del D.P.R. 361/1957, ha stabilito che la Giunta per le elezioni della Camera dei Deputati e l’omologa Giunta del Senato della Repubblica sono competenti nel “pronunciare giudizio definitivo su tutti i reclami presentati all’Ufficio centrale elettorale durante la sua attività o posteriormente”.

Da ultimo, è poi abortito sul nascere anche il tentativo compiuto dal Legislatore di introdurre un meccanismo di controllo giurisdizionale, sia pure limitandolo al procedimento elettorale preparatorio. Invero, con la legge 18 giugno 2009 n. 69, di delega al Governo per il riassetto della disciplina del processo amministrativo, allorché erano stati individuati i criteri direttivi della delega, era stata in particolare prevista (art. 44, comma 2, lettera d) anche l’introduzione della “giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nelle controversie concernenti atti del procedimento elettorale preparatorio per le elezioni per il rinnovo della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica, mediante la previsione di un rito abbreviato in camera di consiglio che consenta la risoluzione del contenzioso in tempi compatibili con gli adempimenti organizzativi del procedimento elettorale e con la data di svolgimento delle elezioni”.

Sta di fatto che il Governo, nell’emettere il relativo D. Lgs. del 2 luglio 2010 n. 104, ha trascurato di dare esecuzione alla delega in tale specifica materia, risultandone perciò ancora una volta confermata l’esclusiva autodichia delle Camere, ex art. 66 Cost., anche sul procedimento elettorale preparatorio, per altro in linea con la decisione n.8118/06 delle SS. UU. della Cassazione.

Sull’autodichia delle Camere in materia esiste poi giurisprudenza di merito pressoché unanime nel ritenere che tocca a ciascuna Camera il potere di verificare la legittimità di tutti gli atti del procedimento elettorale (ex multis, T.A.R. Roma, Sez. II, 2 dicembre 2008, n.10937; T.A.R. Roma, Sez. II, 9 maggio 2006, n. 3395; T.A.R. Roma, Sez. II, 1 agosto 2007, n. 7412; T.A.R. Catania, Sez. I, 9 marzo 1994, n. 650; T.A.R. Palermo, Sez. I, 10 marzo 1994, n. 172; T.A.R. Catanzaro, 29 marzo 1994, n. 417; T.A.R. Catania, Sez. I, 10 novembre 2006, n. 2178; T.A.R. Trento, 11 aprile 2008, n. 92).

Per altro, sembra appena il caso di aggiungere che mai è accaduto, e non è neppure immaginabile che accada, che un Parlamento eletto con una legge elettorale comunque contestata per sospetta di incostituzionalità, possa essere indotto a mettere in discussione sé stesso, sottoponendo alla Consulta la valutazione costituzionale di una legge elettorale in forza della quale sia stato appena eletto.

In teoria, esisterebbe la possibilità che la stessa Corte Costituzionale, chiamata a valutare l’ammissibilità di un quesito referendario in materia elettorale, decida autonomamente di occuparsi dei profili di possibile incostituzionalità della legge elettorale oggetto di richiesta referendaria, sollevando d’ufficio dinanzi a sé stessa la relativa questione che, ove ritenuta non manifestamente infondata, potrebbe innescare un autonomo giudizio al termine del quale la stessa Corte potrebbe giungere ad una dichiarazione di illegittimità costituzionale, anche attraverso lo strumento di una sentenza interpretativa o additiva, in grado di superare e/o riempire il vuoto che potrebbe derivarne.

In occasione del giudizio di ammissibilità sui referendum Guzzetta-Segni, più voci si sono levate per sollecitare la Corte ad utilizzare l’occasione per intervenire in tal senso, e tuttavia, nelle sentenze 15 e 16 del 2008, non è dato rinvenire nulla di ciò, né è consentito ipotizzare che una tale prospettiva si sia nell’occasione effettivamente profilata nella discussione dei giudici costituzionali.

E, ove mai tale discussione sia stata invece ipoteticamente affrontata all’interno della Corte, la conclusione cui la Corte è giunta deve essere stata negativa, posto che il via libera ai due quesiti referendari sull’assegnazione del premio di maggioranza alla lista (piuttosto che alla coalizione) maggioritaria, se suffragato dal consenso popolare (che poi non c’è stato), avrebbe semmai aggravato e giammai alleviato i profili di illegittimità costituzionale che la dottrina, pressoché unanime, ha individuato nel porcellum.

La conclusione sul punto può quindi considerarsi acquisita nel senso che il connotato squisitamente politico delle leggi elettorali esclude la possibilità che la Corte si pronunci di sua iniziativa sulla loro costituzionalità, quasi in attuazione di una tacita intesa circa l’insindacabilità costituzionale delle scelte parlamentari in materia.

In ragione del fatto che le leggi elettorali per il Parlamento disciplinano quello che è il meccanismo fondamentale per il funzionamento di una democrazia rappresentativa, va detto che non è facile accettare in via di principio che la Corte non abbia in alcun modo la possibilità di valutare la costituzionalità delle leggi in materia, specie se si considera che esse possono essere approvate con una maggioranza semplice, pur incidendo chiaramente sull’elettorato attivo e passivo, che è invece materia fatta oggetto di tutela costituzionale.

E tuttavia, allo stato, tutto lascia credere che la Corte sia ormai attestata saldamente su questa posizione, forse ineccepibile sotto il profilo tecnico-giuridico, ma certamente devastante sotto il profilo politico-costituzionale, perché gravida di pericoli ai quali è d’uopo porre qualche rimedio.

11. Conclusione

Il combinato disposto delle riflessioni che precedono, che muovono da una dottrina costituzionale in maggioranza schierata per l’impossibilità della reviviscenza (cfr. P.A. Capotosti; F. SORRENTINO; F. LA VALLE; E. GARBAGNATI; V. ONIDA), rispetto ad una minoranza favorevole (cfr. F. PIERANDREI; T. Martines; M. Raveraira; S. Pugliatti) o perplessa (cfr. G. SERRA; L. GUGLIELMI; A. Pizzorusso), porterebbe a concludere per la sostanziale immodificabilità in melius delle leggi elettorali, sia attraverso la via referendaria sia attraverso la via della giustizia costituzionale.

E tuttavia, proprio la sostanziale preclusione dovuta registrare rispetto alle due normali soluzioni (quella referendaria e quella costituzionale) di ogni conflitto in materia di democrazia rappresentativa ci induce a ritenere che questa doppia tagliola finisca per provare troppo, e quindi debba essere oggetto di una revisione critica.

In via generale, il nostro ordinamento giuridico è tendenzialmente “completo o chiuso”, nel senso che mal sopporta i vuoti normativi, e quindi tende a coprirli in qualche modo col ricorso alle sue risorse interne, e, da qualche tempo, anche ricorrendo all’applicazione di norme sovraordinate, come quelle europee o addirittura internazionali, in estensiva applicazione del primo comma dell’art. 10 e della seconda parte dell’art. 11 della Costituzione..

D’altra parte, è principio fondamentale del nostro ordinamento, sovraordinato anche rispetto alle singole norme costituzionali, che i diritti fondamentali del cittadino non possano mai restare esposti, senza alcuna difesa ordinamentale, alle mutevoli vicende della politica, inevitabilmente legate a maggioranze occasionali, rispetto alle quali non è lecito affidare le sorti delle libertà fondamentali ricorrendo alla mera aspettativa di nuovi orientamenti politici del corpo elettorale, che potrebbero anche non esserci o addirittura, nella peggiore delle ipotesi, non essere consentiti.

Nella trattazione che precede abbiamo dovuto constatare, per un verso, che, secondo la costante giurisprudenza della Corte Costituzionale, la legge costitutiva di un organo costituzionale è indefettibile, e che un referendum in materia è ammissibile solo nella misura in cui la normativa di risulta abbia caratteristiche autoapplicative che ne consentano l’immediata utilizzazione senza alcuna necessità di intervento del Legislatore ordinario.

Ed abbiamo dovuto anche constatare, per altro verso, che ogni contenzioso in materia elettorale è esclusivamente devoluto all’autodichia di ciascuna delle Camere, che non possono sollevare la questione di legittimità costituzionale senza per ciò stesso mettere in discussione sé stesse.

Infine, a sigillo di quanto precede, abbiamo dovuto prendere atto che, almeno per quel che è sin qui accaduto e per quel che è possibile intuire anche dalle ultime sentenze in materia della Consulta, che la Corte non ritiene di potere sollevare d’ufficio la questione di legittimità costituzionale della normativa elettorale, avendo per l’appunto omesso di farlo proprio nell’occasione più clamorosa che le è stata offerta, e cioè quella delle sentenze del 15 e 16 del gennaio del 2008, e che lo stesso Legislatore delegato ha rifiutato di dare esecuzione anche a quella pur limitata delega che gli era stata affidata dal Parlamento sui meccanismi del procedimento elettorale preparatorio; quale delega, se attuata, non avrebbe risolto del tutto il problema del vuoto normativo, ma avrebbe almeno creato uno spiraglio attraverso cui sarebbe forse stato possibile introdurre qualche meccanismo di accesso al vaglio di costituzionalità ad opera della C. C., che invece resta precluso.,

Il quadro ordinamentale che ne emerge è quello di un sistema costituzionale mutilato in uno snodo fondamentale, privo cioè di una qualsiasi valvola di sicurezza per l’eventualità, tutt’altro che teorica, che una maggioranza occasionale, sulla base di una spinta plebiscitaria di cui l’Italia ha già fatto triste esperienza con la Legge Acerbo del 1923, utilizzi la sua forza parlamentare per approvare una legge elettorale liberticida, ben più di quanto non sia quella attualmente in vigore, utilizzando sapientemente un lessico tecnico-giuridico capace di sottrarsi ad un qualsiasi referendum con esito autoapplicativo.

Di fronte a tale scenario, essendo vincolati per un verso dall’impossibilità di invalidare la volontà del Parlamento per via referendaria, ed essendo vincolati, per altro verso, dall’inesistenza di un percorso giudiziario tale da portare la questione all’esame dei Giudici delle Leggi, non resterebbe alcuna possibilità di salvaguardia per le libertà civili, prima fra tutte quella di potere liberamente ed effettivamente scegliere i propri rappresentati in Parlamento.

Da questa tagliola potenzialmente mortale per le sorti della democrazia rappresentativa occorre uscire, in termini conformi o comunque non incompatibili coi principi che presiedono all’ordinamento giuridico.

Orbene, a noi sembra che quella di ipotizzare, in via generale, la reviviscenza della legge elettorale precedente (nella specie, il c.d. Mattarellum) rispetto a quella abrogata da una riforma in pejus (come, nella specie, è universalmente riconosciuta essere il c.d. porcellum) sotto il profilo costituzionale e democratico finisce per apparire come l’unico strumento costituzionale residuale utilizzabile dal popolo per rivendicare l’effettività della sua sovranità, ripristinando la democraticità del sistema.

In tal modo si potrebbe tornare ad illuminare con la luce della Costituzione e della volontà popolare quella “zona d’ombra” che incombe sul nostro sistema democratico e che è stato tanto autorevolmente denunziato da autorevole dottrina costituzionale (cfr. gli atti dei Seminari organizzati dal c.d. Gruppo di Pisa), senza tuttavia avere trovato, sin qui, la dovuta attenzione.

Infine, l’iniziativa referendaria, quand’anche non giungesse sino al vaglio popolare perché bloccata in limine dalla Corte Costituzionale, potrebbe egualmente avere una positiva ricaduta per l’ordinamento proprio in sede di giudizio di ammissibilità, potendo fornire alla Corte una nuova occasione per affrontare la questione della legittimità costituzionale di numerose disposizioni del porcellum che, secondo l’opinione prevalente degli studiosi, appaiono in palese contrasto con la Costituzione.

In scienza e coscienza, possiamo quindi affermare che ci sono sufficienti motivazioni per proseguire nell’iniziativa, che comunque avrebbe l’indubbio merito di far crescere nel’opinione pubblica la consapevolezza della necessità indilazionabile di un profondo cambiamento in senso democratico nei metodi di selezione della classe politica.

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18 Intervento di E. Cheli al seminario di ASTRID Questioni di ammissibilità dei referendum elettorali, cit.
19 Interventi di F. Bassanini ai seminari L’ammissibilità del referendum elettorale, cit. e Questioni di ammissibilità dei referendum elettorali (ASTRID), cit.
20 Intervento introduttivo di F. Lanchester al seminario L’ammissibilità del referendum elettorale, cit
21 E. Cheli, op. cit.
22 P.A. Capotosti, op. cit.
23 M. Villone, op. cit.
24 Ibidem.
25 Interventi di S. Ceccanti ai seminari L’ammissibilità del referendum elettorale, cit. e Questioni di ammissibilità dei referendum elettorali (ASTRID), cit.
26 A. Giorgis, I referendum elettorali e il rischio di risvegliare il Behemoth dell’antipolitica,
27 Inteventi di Luciani e Pizzorusso al seminario di ASTRID Questioni di ammissibilità dei referendum elettorali, cit.
28 S. mangiameli, La road map per ripristinare il Mattarellum, in il Riformista, 11 maggio 2007.
29 Intervento di R. Chieppa al seminario L’ammissibilità del referendum elettorale, cit.
30 Osservazioni compendiate in A. Pizzorusso, “Zone d’ombra” e “zone franche” della giustizia costituzionale italiana, in Studi in onore di Pierfrancesco Grossi, 2010, in corso di pubblicazione (disponibile su www.giurcost.org).

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