I più discriminati nel mondo del lavoro sono le persone con disabilità, le donne e i lavoratori migranti. Lo dimostra il terzo rapporto dell’ILO (International Labour Organization delle Nazioni Unite) dal titolo Equality at work: The continuing challenge.
Il Rapporto prende le mosse dalla Dichiarazione sui principi e i diritti fondamentali nel lavoro, adottata dalla Conferenza Internazionale del Lavoro nel 1998. I quattro principi fondamentali della Dichiarazione sono la libertà di associazione, l’eliminazione del lavoro minorile, l’eliminazione del lavoro forzato e la discriminazione.
Gli organismi promotori dell’uguaglianza ricevono un crescente numero di denunce: la discriminazione per molteplici motivi sta diventando una regola piuttosto che un’eccezione e la dignità della persona risulta fortemente compromessa.
Dai dati dell’ILO emerge che le discriminazioni per motivi di lavoro continuano ad esistere per larga parte dei 650 milioni di persone con disabilità, come dimostra il basso tasso di occupazione di questa categoria di persone. Persistono inoltre le disuguaglianze di genere, nonostante i progressi significativi compiuti in materia di pari opportunità negli ultimi decenni. Le disuguaglianze salariali tra uomini e donne sono evidenti: le donne guadagnano in media il 70-90 per cento di quanto guadagnano gli uomini. La gravidanza e la maternità, inoltre, continuano ad essere viste come un grave impedimento.
Sono molto pronunciate anche le discriminazioni razziali. I lavoratori migranti molto spesso sono esclusi dal sistema di protezione sociale e discriminati nell’accesso al lavoro, nonostante gli immigrati rappresentino sempre più una risorsa nel mondo del lavoro. Secondo un recente studio commissionato dall’Abi (Associazione Bancaria Italiana) in collaborazione con il Cespi (Centro studi politica internazionale), nel nostro Paese, ad esempio, sono circa 5 milioni i cittadini immigrati che incidono per circa il 10% sul totale degli occupati, contribuiscono alla produzione del Pil per l’11%, pagano quasi 11 miliardi di euro di contributi previdenziali e dichiarano al fisco oltre 33 miliardi di euro. Il 3,5% delle imprese operanti nel nostro Paese ha inoltre il titolare straniero. L’analisi Abi-Cespi evidenzia anche il ruolo importante dell’imprenditoria immigrata, sempre più rilevante in termini numerici all’interno del tessuto economico italiano. Si tratta di un aspetto che racconta di evoluzione e di mobilità sociale, oltre che di opportunità di trasformazione del sistema imprenditoriale italiano. A tale proposito viene incoraggiata la promozione di strumenti innovativi, utili a favorire l’inclusione finanziaria e sociale dei cittadini stranieri, come ad esempio la microfinanza.
Il razzismo va combattuto anche e soprattutto con misure concrete come queste anche se molti ostacoli che impediscono il libero accesso al mercato del lavoro dei lavoratori immigrati devono, in verità, essere ancora rimossi, in particolare per le persone di origine africana o asiatica, per le popolazioni indigene e le minoranze etniche e, soprattutto, per le donne che appartengono a questi gruppi. Dal Rapporto dell’ILO emerge ad esempio che le lavoratrici migranti sono maggiormente esposte ad episodi di molestie sessuali, un problema significativo nei luoghi di lavoro. Lo sono anche giovani donne, non autonome finanziariamente, single o divorziate. Fra gli uomini le vittime sono il più delle volte i giovani, gli omosessuali e i membri delle minoranze etniche o razziali.
In crescita invece la discriminazione per motivi religiosi e si stanno affermando nuove forme di discriminazione per orientamento sessuale e per ragioni di opinione politica; quest’ultima, in particolare, tende ad essere più frequente nel settore pubblico dove l’appartenenza alle idee politiche del governo in carica può essere un elemento determinante per accedere ad un posto di lavoro. Un’altra nuova e singolare forma di discriminazione, diventata una questione d’attualità, riguarda infine lo stile di vita: si è discriminati per tabagismo e obesità.
L’ILO raccomanda alcune misure indispensabili a contrastare la discriminazione. Prima fra tutte la promozione della ratifica universale e dell’applicazione delle due Convenzioni fondamentali sull’uguaglianza: la Convenzione sull’uguaglianza di retribuzione del 1951 e la Convenzione sulla discriminazione nell’impiego e nelle professione del 1958. Altro obiettivo fondamentale è lo sviluppo e la condivisione di conoscenze sull’eliminazione della discriminazione nell’impiego e nelle professioni, la costruzione di una cultura della solidarietà e dell’uguaglianza. Occorrerebbe infine rafforzare il ruolo dei partenariati internazionali, attori principali che si occupano di uguaglianza.
In una società pienamente liberale la promozione della giustizia sociale, dei diritti umani e quelli del lavoratore internazionalmente riconosciuti rappresenta una battaglia di civiltà di fronte alla quale non si può rimanere sordi. L’uguaglianza di opportunità e di trattamento, l’abolizione del lavoro forzato e, tra le altre cose, anche la libertà di fare impresa, sono i pilastri sui quali si regge una società liberale. Sul fronte politico, i governi dovrebbero incoraggiare il mercato del lavoro e dell’occupazione, invece che soffocarlo con manovre finanziarie suicide per le imprese. Come suggerisce il Direttore Generale dell’ILO Juan Somavia “La risposta giusta è combinare politiche per la crescita economica a politiche per l’occupazione, la protezione sociale e i diritti nel lavoro, che consentano ai governi, alle parti sociali e alla società civile di lavorare insieme”.
Senza dubbio la dignità della persona è una regola che va rispettata, ma lo è anche la possibilità di fare impresa. Nel panorama attuale il mondo imprenditoriale è minato dall’interno e dall’esterno; anche gli imprenditori si trovano a dover fronteggiare una grave crisi economica e, molto spesso, sono costretti ad offrire ai lavoratori condizioni non del tutto ottimali che, magari, vengono lette in una prospettiva discriminatoria a causa di un ridondante e deviante moralismo che prescinde dalle logiche imprenditoriali. Per garantire una crescita economica sostenibile ed equilibrata e una società più equa, è necessario non dimenticare il diritto fondamentale di non discriminazione nell’impiego e nelle professioni per tutte le donne e gli uomini, quale parte integrante delle politiche del lavoro dignitoso, ma è necessario, allo stesso modo, garantire alle imprese non semplicemente la propria sopravvivenza ma anche e soprattutto il loro sviluppo. In pratica si tratta di difendere la dignità dei lavoratori al pari della dignità di fare impresa.
Occorrerebbe inoltre promuovere una specifica e sana cultura della tolleranza, secondo il significato attribuito al termine ‘tolleranza’ da uno dei padri del liberalismo, François-Marie Arouet, più noto con lo pseudonimo di Voltaire. “La tolleranza – afferma Voltaire – è una conseguenza necessaria della nostra condizione umana. Siamo tutti figli della fragilità: fallibii e inclini all’errore (…). È questa la prima legge naturale: il principio a fondamento di tutti i diritti umani”. La discriminazione, di conseguenza, nasce dalla mancanza di tolleranza, quando l’Altro viene riconosciuto come ‘un diverso’ e, in quanto tale, discriminato. ‘Tolleranza’ significa allora rispetto delle differenze, ‘uguaglianza’: siamo tutti uguali anche se diversi l’uno dall’altro. Essere uguali rappresenta però ‘una sfida continua’, non solo nel mondo del lavoro.

Bellissimo articolo, centra in pieno uno degli obiettivi che il PLI si ripropone (grazie anche ad una collaborazione con la FISH) quello di “ribaltare” l’attuale concetto: diverso=improduttivo, quindi peso per la società, persona da emarginare o, come nel caso di molti lavoratori extracomunitari, da sfruttare. Mi viene in mente una esperienza imprenditoriale di qualche anno fa, attuata da un gruppo di ragazzi Down e le loro famiglie: aprirono a Roma un ristorante, La Locanda del Girasole, dove questi ragazzi avevano trovato collocazione lavorativa (viste le difficoltà nel trovare un qualsiasi altro lavoro), grazie ai sacrifici economici delle loro famiglie per aprire il locale. Alcuni di loro erano in cucina come chef, altri in sala come camerieri e sommelier. I genitori solo gestivano la parte economica. Vi ho cenato: cibo ottimo, vini buoni, atmosfera molto piacevole, Il problema? Le guide della ristorazione gli hanno dato una mano cercando di fare pubblicità al ristorante, così anche l’AIPD, ma la mentalità delle persone non si cambia, quindi la diffidenza degli eventuali avventori era tanta. Hanno dovuto chiudere perchè non avevano sufficiente clientela e le banche non credevano in loro, così non hanno ottenuto ulteriori finanziamenti. E se fossero stati “normali”? Ecco il punto, questo sistema non offre chances imprenditoriali in chi vede DIVERSO. E’ questa mentalità che si deve cambiare: il diverso non è un peso, ma, con le sue capacità, una opportunità!