Il Decreto Legge 98/2011 recante “Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria” (la cosiddetta manovra correttiva) conteneva, nella sua versione originale, una norma di distruzione di massa. Il decimo comma dell’articolo 23 prevedeva di aumentare a 100 anni il periodo di ammortamento fiscale degli investimenti in opere di pubblica utilità. Una bomba che, deflagrando, avrebbe comportato l’azzeramento di qualsiasi ipotesi di coinvolgimento di capitali privati nella costruzione e nel finanziamento di opere pubbliche. Il tempo di recupero fiscale del costo dell’investimento sostenuto sarebbe lievitato, determinando l’artificiosa crescita del reddito su cui si paga l’IRES (imposta sul reddito delle società), per di più la previsione avrebbe cambiato le regole del gioco a partita in corso poiché applicabile anche alle concessioni in essere.
Una follia illiberale che è stata arginata dallo sforzo profuso dai rappresentanti istituzionali di imprese e concessionari che, oltre a spingere il Ministro Tremonti ad ammettere di aver «un po’ esagerato» con la previsione sulla stretta alla deducibilità degli ammortamenti, ha influenzato l’iter parlamentare del Disegno di Legge di conversione.
Il testo emendato dal Senato ha eliminato la norma citata, ma il risultato è tutt’altro che entusiasmante. Le “necessità di cassa” hanno portato ad abbassare dal 5 all’1% la deducibilità degli accantonamenti al fondo di ripristino (necessario per consentire la restituzione dei beni ottenuti in concessione “nello stato originario ovvero in condizioni di efficienza”) stanziati dalle società che gestiscono autostrade e trafori, inoltre per le altre concessionarie è stato previsto un aumento dell’aliquota Irap di 0,3 punti percentuali (dal 3,9 al 4,2%).
Al di là delle valutazioni di merito sull’utilità di una tale prescrizione, ciò che preoccupa è l’aspetto qualitativo della stessa. Si tratta di una norma che va nella direzione diametralmente opposta rispetto alla tanto declamata rivoluzione liberale, promessa per vincere le elezioni, ma mai attuata, che fa il pari con l’ennesima propaganda sul “piano per la cessione delle partecipazioni statali”. Stando al Disegno di legge all’esame delle Camere, il ministero dell’Economia dovrà, infatti, approvare (entro il 31 dicembre 2013) “uno o più programmi per la dismissione di partecipazioni azionarie dello Stato e di enti pubblici non territoriali”.
Non è accettabile che riforme strutturali auspicate e largamente condivise, come la riduzione della presenza dello Stato nell’economia nazionale, o interventi suggeriti dal buon senso (prima ancora che da un ragionamento responsabile), come la riduzione dei privilegi della casta politica, siano procrastinate a date più o meno future, mentre per le necessità di breve periodo si mettono le mani nelle tasche del ceto medio italiano e si attingono risorse da chi investe i propri capitali in opere utili alla collettività.

Mi pare che i Governi succedutisi negli ultimi 15 anni abbiano dimostarto con azioni convergenti -anche tra divergenze politiche- che la riduzione della presenza dello Stato nell’economia sia un’opzione proclamata ma non desiderata.