Il Tibet, collocato tra India e Cina, domina una gran parte dell’Asia. 3,5 milioni di chilometri quadrati competono con altezze vertiginose e cime di più di 8000 metri. I tibetani sono persone calorose, sorridenti, ospitali. La montagna li ha dotati di pazienza, ostinazione e grande forza fisica. Protetto dalle sue creste e da antichi trattati, il paese vive per secoli nel più grande isolamento.
Il dramma è cominciato nel 1950, quando il potente esercito cinese invade il Tibet. Da allora, uno dei più bei paesi al Mondo, legato a profonde tradizioni pacifiche e religiose, resiste, grazie alla forza della disperazione, alla minaccia di annientamento. L’agonia del Tibet non è solo fatta di uomini assassinati, di monaci e monache torturati, di migliaia di persone deportate in campi di rieducazione, ma è anche un vero genocidio culturale, linguistico e religioso perpetrato dalle autorità cinesi per cancellare questa antica civilizzazione dalle carte geografiche. Secondo Pechino, il “programma di educazione patriottico” mira a riabilitare la popolazione. Sono tutti invitati a rinnegare la religione, il Dalai Lama e a denunciare chiunque, anche membri della propria famiglia, si sospetti essere a favore dell’autonomia del Tibet. Secondo i rifugiati, le sessioni di rieducazione superano in atrocità gli orrori della Rivoluzione Culturale. La storia del Tibet è conosciuta da pochi, falsificarla è molto semplice. Grazie alla propaganda e alla costante revisione della storia da parte del Partito Comunista, più di un miliardo di persone hanno fatto loro la versione data dal governo cinese e ubbidito agli ordini. Nel 1959, migliaia di tibetani hanno seguito il Dalai Lama e sono andati in esilio. Si sono incamminati nel freddo e nella neve, hanno attraversato passi a più di 5000 metri di altezza, hanno sfidato le pattuglie cinesi istruite a sparare ad ogni cosa in movimento. Ci vuole un mese per arrivare da Lhassa al Nepal a piedi.
Qual è il bilancio di 50 anni di occupazione cinese in Tibet? Perché la Cina ha invaso il Tibet? Oltre al milione e passa di morti nei campi di lavoro, morti per le torture subite, morti in combattimento o giustiziati, sono stati distrutti 6300 templi e monasteri, sono state portate avanti campagne di sterilizzazione e aborto con l’obbiettivo di “sterminare” la razza (i medici vengono “ricompensati” per ogni infanticidio effettuato), sono arrivati coloni cinesi ai quali sono stati offerti salari doppi e benefit vari (oggi ci sono più cinesi che tibetani), è stata distrutta senza scrupoli ogni riserva ecologica (legno e minerali sono spediti in Cina), si utilizza il paese come discarica per le scorie radioattive e si sta progressivamente sopprimendo la lingua tibetana. Una vera e propria sinizzazione ad oltranza. La Cina giustifica la sua presenza attraverso due argomentazioni: la prima è che il Tibet è sempre stato parte integrante della Cina, la seconda che il Tibet viveva da paese “sottosviluppato” e la Cina lo ha “liberato”. Ma va da se che queste tesi sono senza fondamento e non possono giustificare un’invasione così crudele. Il Tibet esiste come Stato da almeno 1000 anni, e oggi i tibetani non beneficiano di alcun progresso sociale, tutto è riservato ai cinesi. L’invasione è ovviamente giustificata da ragioni economiche (il Tibet è ricco di minerali, uranio, oro e argento e legni pregiati) e militari, è dal 1949 un utile lo Stato tampone tra Cina e India. Il secolo appena trascorso è stato senza dubbio tra i più sanguinari della storia dell’umanità. Fino ad oggi non siamo stati capaci a trarre una vera lezione dagli eventi passati e rompere il circolo infernale della violenza. In questo contesto è chiaro che la non violenza sostenuta dai tibetani dopo cinquant’anni di occupazione conquisti il rispetto e il sostegno di tutti. Il tempo passa e gioca a loro sfavore. Non hanno che una piccola speranza di fronte al bulldozer cinese. Il Dalai Lama l’ha ripetuto più volte e conta sul sostegno e la solidarietà di uomini e donne del mondo intero, ciò che viene chiamato comunità internazionale. La non violenza non vuol dire passività, è un azione militante che necessita spesso sentimenti forti, come l’eroismo. E i tibetani sono così. Proprio pochi giorni fa, in occasione del compleanno di Sua Santità il Dalai Lama (6 luglio), in migliaia hanno sfidato le restrizioni del governo e si sono riuniti in preghiera, a Karzadé. Hanno esposto senza timore le bandiere nazionali tibetane e gridato slogan, fino a che 500 soldati ha disperso la folla. Non sono mancati gli arresti, molta gente è “sparita”, i diritti sempre più calpestati. Nel mese di Luglio il Tibet, per i turisti stranieri, è off limit, le frontiere sono state chiuse in vista di festeggiamenti “politici” che non devono avere testimoni: la festa per i 90 anni del PC e i 60 anni dalla “liberazione” del Tibet… Le testimonianze di atti di violenza e vessazioni sui monaci sono all’ordine del giorno. Ma loro non rispondono alla violenza con la violenza. Mai.
Il Dalai Lama pochi giorni fa dal Campidoglio, simbolo della democrazia americana, ha reso pubblico il suo desiderio di tornare un giorno in Tibet. Crede fermamente a Wen Jabao che ha promesso l’evoluzione “democratica” della Cina “dove c’è ancora molto lavoro da fare. “Le cose cambiano in continuazione”, dice. L’ottimismo disarmante del dirigente buddhista si scontra con le associazioni che difendono i Diritti dell’uomo, che sostengono che la Cina sia sicura che con la morte del Dalai Lama morirà ogni rivendicazione tibetana. In effetti, il commento di Pechino alla visita del Dalai Lama negli USA è stata piuttosto gelido: “ la questione dei tibetani è una questione di politica interna della Cina che si oppone fermamente a qualsiasi interferenza da parti estranee”. Certamente c’è molta strada da fare. Ma i cambiamenti radicali avvenuti negli ultimi 40 anni senza ricorrere alla violenza come la “rivoluzione di velluto” in Cecoslovacchia, la caduta del muro di Berlino o la fine dell’Apartheid in Sudafrica fino ad arrivare alla “Rivoluzione dei gelsomini” dei giorni nostri, ci devono sempre più rendere consapevoli di quanta forza possa avere la non violenza.
