Alle tante notizie pubbliche non proprio incoraggianti, si uniscono talvolta notizie private che ci causano profonda tristezza. E’ il caso della morte a 81 anni di Boris Biancheri che televisione e giornali hanno giustamente riportato con l’evidenza che merita. Boris non era un politico o un divo dello spettacolo o dello sport, non era abituato a riempire di sé le cronache: era solo un grande e straordinario servitore dello Stato. Apparteneva a quella categoria di diplomatici a cui il Paese può affidare tranquillamente le responsabilità più delicate e di fatto le aveva avute tutte: Ambasciatore a Tokyo, Londra, Washington, Capo di Gabinetto del Ministro, Direttore Generale del Personale, Direttore Generale degli Affari Politici e, da ultimo, Segretario Generale, e in tutti gli incarichi aveva dato il meglio di sé, comportandosi, specie nella poltrona più alta del Ministero, con un equilibrio di cui non tutti i suoi predecessori o successori hanno fornito lo stesso esempio. Le sue qualità umane e professionali gli avevano valso il rispetto del mondo politico, senza distinzione di parte, e del mondo della cultura, facendo sì che, dopo il collocamento a riposo, gli venissero affidati incarichi prestigiosi come le presidenze dell’ISPI, dell’ANSA e dell’Associazione Editori di Giornali.
Il pubblico spesso ignora l’azione della nostra diplomazia professionale o la giudica per facili streotipi che appartengono a un passato remoto (si continua a parlare di “feluche”, benché quel copricapo, e l’uniforme gallonata con cui andava, siano scomparse da almeno cinquant’anni). Forse é giusto che così sia, perché la regola numero uno di una diplomazia efficace é la discrezione, l’agire fuori dei riflettori. Ma la gente deve sapere che, al di là dei governi che passano, é un gruppo di diplomatici di alto livello che assicura la continuità della nostra politica, ne mantiene credibilità e prestigio, anche per il rispetto personale guadagnatosi nel mondo, in definitiva ristretto, della diplomazia internazionale. Boris apparteneva a quella generazione del 30, che ha dato diplomatici di rilievo (come Bruno Bottai e Renato Ruggiero) ed era a mio avviso il migliore di tutti loro, per l’acutezza politica, per lo spessore culturale, per la serenità e anche – perché no – per un certo distacco (una sorta di piacevole oblomovismo che lo aiutava a sdrammatizzare) che forse gli veniva dalla sua ascendenza materna russa o forse dalla sicurezza di avere alle spalle generazioni di politici e diplomatici che hanno contribuito alla storia d’Italia (tra cui quel Tomasi della Torretta a cui era legato attraverso la madre, sorella della moglie di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, l’autore del Gattopardo, al quale Boris ha dedicato un libro bello e toccante, quanto l’altro ispirato dai ricordi della sua famiglia baltica). Lavorare con lui era una delizia e un ammaestramento continuo. Ho avuto il privilegio di essere suo amico per cinquant’anni e fu lui, appena nominato Direttore degli Affari Politici nel 1985, a volermi come suo Vicedirettore e poi a pilotare la mia elezione da parte dei Ministri degli Esteri della CE a Segretario Generale della Cooperazione Politica Europea. E fu lui a seguire quotidianamente, da Segretario Generale, il mio lavoro di Ambasciatore alla NATO in tempi complessi, e insieme abbiamo lavorato per unire Italia e Argentina da vincoli di stretta consultazione politica.
Quali erano le sue convinzioni ideologiche? Non apparteneva a nessun partito, come é giusto che sia per un vero servitore dello Stato, per cui lo Stato è al di sopra delle parti politiche.
Era, certo, uomo d’ordine, ma aperto alle idee e profondamente indipendente nel suo pensiero. Era, insomma, nello spirito, un autentico liberale.
Come ha ricordato il Capo dello Stato, l’Italia ha perso con Boris uno dei suoi servitori migliori.
