Tra le nuove correnti e tendenze cinematografiche che si svilupparono in Francia nei primi anni sessanta, un ruolo cardine fu ricoperto dal cinéma-vérité. Abolendo la dualità vita-cinema, attraverso l’annullamento della contraddizione tra mise en scène e prise sur le vif, questo nuovo stile mirava a superare l’opposizione fondamentale tra cinema narrativo e cinema documentario, dimostrando che la verità umana conteneva un potere poetico pari alla finzione. Il regista ed etnologo francese Jean Rouch, pioniere di questa nuova tendenza, diede così un nuovo impulso al cinema realista, riscoprendo le teorie del documentarista d’avanguardia sovietico Dziga Vertov, ed applicandole alle sue pellicole sotto forma di metodo tecnico.

Nell’estate del 1960 Rouch, con la collaborazione del sociologo Edgar Morin, girò Cronaca di un’estate, saggio cinematografico sulla “generazione algerina”. Persone provenienti da ambienti sociali differenti (un ex-deportata nei lager, un intellettuale, un operaio, una cover-girl, uno studente di colore, una coppia di piccoli impiegati…), vennero intervistate su temi vari quali l’amore, la felicità, il tempo libero, il lavoro, la politica, il razzismo, cogliendo le loro reazioni, talvolta impreviste, attraverso una macchina da presa portatile collegata ad un magnetofono sincrono, in pieno stile cinéma-vérité. Se all’inizio la questione principale è unicamente “Siete felici?”, a poco a poco, durante il film, si svela ciò che si nasconde e tormenta ogni individuo in profondità: la disperazione politica, la solitudine, lo smarrimento e una certa forma d’inquietudine. Un’altra domanda allora sembra aleggiare in secondo piano per l’intera durata della pellicola: cosa c’è realmente dietro questa fragile apparenza?

Nonostante fosse stato girato in un momento in cui la guerra d’Algeria era un tema di scottante attualità per la Francia, Cronaca di un’estate non parla mai direttamente del conflitto, limitandosi a delle timide allusioni su ciò che stava accadendo là-bas. Edgar Morin stesso, durante un’intervista, affermò che la guerra d’Algeria era, all’epoca del tournage, un evento cruciale che non poteva essere rappresentato nella sua integrità, sia per una necessità di montaggio, che per un “fenomeno di autocensura”. Inoltre, in seguito alla pubblicazione nel 1960 del Manifeste des 121, dichiarazione sottoscritta da numerosi intellettuali francesi che giustificava “il diritto all’insubordinazione” nella guerra d’Algeria, il problema del rifiuto della coscrizione obbligatoria era al centro dell’opinione pubblica francese, ed un film che ne avesse parlato direttamente, “la censura non l’avrebbe mai accettato”.

Due anni dopo, con intenti simili al duo Rouch-Morin, il cineasta francese Chris Marker girò il suo primo documentario ambientato esclusivamente a Parigi: Le Joli Mai. La Francia aveva da poco firmato gli accordi d’Évian, che mettevano formalmente fine agli otto anni di guerra d’Algeria, e si preparava al riconoscimento ufficiale dell’indipendenza algerina con Charles de Gaulle alla presidenza della Repubblica e Georges Pompidou in qualità di primo ministro. Alla stregua di Cronaca di un’estate, la pellicola di Marker, attraverso una serie di interviste realizzate con macchina da presa leggera e registrazione diretta in sincrono, si presentava come documentario d’inchiesta socio-politica sulla multiculturale società parigina di quella che fu considerata da molti come “la prima primavera di pace”, di quel maggio del 1962 che però tanto joli non era, sullo sfondo drammatico degli “évènements d’Algérie” che volgevano al termine, e alla luce degli attentati dell’OAS che stavano aumentando progressivamente.

La “caméra-vivante” di Marker mostra i parigini nella loro vita quotidiana, dà voce alle opinioni, alle speranze e alle angosce di un’intera generazione, in una Parigi ancora profondamente segnata dalla manifestazione contro l’OAS dell’8 febbraio 1962, repressa nel sangue dalla polizia comandata dal prefetto Maurice Papon. Infatti,  proprio evocando la tragedia della metro Charonne, che causò la morte di nove manifestanti, Marker fa cominciare la seconda, e più politica, delle due parti in cui è diviso Le Joli Mai.

Nella prima, Prière sous la Tour Eiffel, il regista francese intervista “la gente di ogni giorno” (un venditore ambulante, un professore di liceo, una madre di famiglia…) sul tema della felicità, riprendendo la questione principale di Cronaca di un’estate, ed offrendoci l’immagine di una popolazione egoista, eccentrica e narcisista, interessata unicamente al miglioramento personale e alla prosperità economica, totalmente distaccata dai problemi e dai bisogni collettivi della società. Nella seconda, Le Retour de Fantômas, mostra invece le speranze di persone più “politicizzate” (un ex-prete che rinuncia alla fede per diventare sindacalista filo-comunista, un giovane operaio algerino che parla della sua scoperta del razzismo, uno studente dahomeiano che mette a confronto la propria cultura africana con quella europea…) all’interno del contesto e dei limiti della classe sociale d’appartenenza. I problemi di razzismo, emarginazione, ingiustizia sociale, lotta di classe e sfruttamento coloniale, di cui trattano i protagonisti di Le Retour de Fantômas, gettano così un’ombra sinistra sulla prospettiva di una pace duratura che, almeno in superficie, sembrava possibile dopo la firma degli accordi d’Évian.

Inevitabilmente, è attraverso questa duplice immagine di Parigi come città di speranza e di disperazione, di progresso e di smarrimento, di liberazione e d’imprigionamento, che Le Joli Mai serve non solo come specchio dello spirito dei tempi, ma anche come prefigurazione presciente del disordine sociale e della rivoluzione ideologica che stava per compiersi.

Nonostante la guerra d’Algeria abbia un posto, seppur limitato, all’interno delle due pellicole, è evidente in entrambe l’idea di voler testimoniare di uno spazio-tempo ben circoscritto (la Francia parigina dell’estate 1961 e del maggio 1962) e non di un tema preciso. Il conflitto è solo lo sfondo cinematografico per una società miope ed alienata, distratta e sommersa dalla valanga di novità e di beni di consumo della nuova società moderna.

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