Cheyenne (Sean Penn) è una rockstar cinquantenne ormai in decadenza, ma che mantiene ancora il suo inconfondibile stile, gotico e ombroso, di quando era sulla cresta dell’onda: eccentrico trucco bianco, labbra marcatamente rosse, eyeliner nero agli occhi e capelli scompigliati da protagonista. Vive agiatamente a Dublino, ma dello smalto giovanile ha perso tutto. Depresso e malridotto continua la sua vita piatta nella capitale irlandese finché un giorno arriva una chiamata dagli States che annuncia la morte di suo padre, al quale non rivolgeva più la parola da quasi trent’anni. Sarà questa la scintilla che porterà Cheyenne a dare una svolta alla sua vita, mettendolo in viaggio, nell’America più profonda, alla ricerca di sé stesso e del persecutore nazista che umiliò suo padre in un campo di concentramento.

Presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes, il nuovo film del partenopeo Paolo Sorrentino (uscito in Francia tre mesi prima che in Italia!) è un meraviglioso road-movie, che conferma la notevole levatura autoriale del realizzatore de Il Divo, uscito nel 2009 ed incentrato sulla figura di Giulio Andreotti. È ancora un inspiegabile mistero il perché non sia stato premiato nei pressi della Croisette, e lo è ancor di più il mancato riconoscimento alla prestazione di un Sean Penn da antologia, straordinariamente misurato e intensamente intimo nei panni di un rocker, palesemente ispirato a Robert Smith dei Cure, calato in un viaggio on the road, che è anche e soprattutto un viaggio di iniziazione, in compagnia dei suoi dubbi e dei suoi vuoti interiori rinchiusi simbolicamente nel suo inseparabile trolley. Smarrito e irresoluto, inizia la sua folle ricerca, nei meandri dell’America, da New York al New Mexico, e nei meandri del suo animo, confuso e contradditorio, per capire se a cinquant’anni è ancora possibile dare un senso alla propria vita, diventando definitivamente adulti, o per abbandonarsi amaramente all’idea di restare per sempre un ingenuo fanciullo.

Il contenuto senza la forma ha poco da dirci, ma Sorrentino con la sua regia ne raddoppia la bellezza, talvolta con lapalissiano compiacimento, talvolta con virtuosismi necessari, accompagnati da un’avvolgente colonna sonora firmata da David Byrne dei Talking Heads. E se facciamo un breve salto à rebours possiamo affermare senza troppi scrupoli che This Musted Be The Palm.

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