Il PdL sta attraversando una crisi non di tipo politico, ma una vera e propria crisi di identità. L’ultima manovra finanziaria ha fatto venire meno tutti i capisaldi su cui è stato fondato il partito: non mettere le mani nelle tasche degli italiani, lotta contro lo Stato di polizia fiscale, meno centralismo, meno burocrazia, liberalizzazioni.
La base è in rivolta e nel partito stesso si alzano voci polemiche contro l’azione del Governo e un evidente imbarazzo per i guai giudiziari del premier. Il partito non è così monolitico come sembra. A esempio è partito sul Secolo d’Italia un interessante dibattito sull’uso delle Primarie come strumento per la selezione della classe dirigente. Figure di primo piano alzano pesanti critiche e disapprovazioni soprattutto nei confronti di Tremonti (guai a parlare male di Berlusconi!) e vari leader come Formigoni, Alemanno, Alfano scalpitano per la successione.
Però è proprio la discussione sul dopo-Berlusconi che evidenzia i limiti del partito: pur sapendo che ormai il premier è cotto, che la sua leadership non è credibile, che anche il suo carisma è appannato e che è ormai impresentabile alle prossime elezioni, nessuno mette in discussione la sua guida, tutti dicono che una sua eventuale ricandidatura dipenderà dalla sua volontà, nessuno è in grado di lanciare una sfida che parta proprio dai valori fondanti e traditi del partito. Da questo punto di vista bisogna ammettere che Fini è stato l’unico che ha avuto il coraggio di mettere in discussione la leadership del partito, anche se ha ecceduto in una personalizzazione della sfida politica a Berlusconi ed è probabilmente uscito dal recinto dei valori comunemente accettati dell’elettorato del centrodestra.
Ma il problema della legittimità del dissenso e della messa in discussione della leadership è rimasto ancora lì: può il PdL rinnovarsi e rigenerarsi partendo dai valori di riferimento del proprio elettorato? La risposta alla domanda sembra negativa perché nella scelta tra i princìpi liberali a cui il partito era originariamente ispirato e la difesa della leadership di Berlusconi, il PdL sta scegliendo la difesa a oltranza del premier. Insomma è emerso definitivamente che il PdL non è un partito con una comunanza di obiettivi, interessi e valori che si è dato Berlusconi come guida, ma è il partito di Berlusconi e i princìpi sono solo una sovrastruttura della sua leadership. Berlusconi prima di tutto.
L’attuale condizione del soggetto politico sembra simile alla Jugoslavia di Tito e le scintille che si sentono in periferia sembrano solo il preludio alla balcanizzazione di un partito che non sopravviverà alla morte politica del suo padre-padrone.
Il fallimento del PdL però non elimina le questioni di fondo che l’attuale maggioranza è stata incapace di affrontare e le domande inevase di riforma dello Stato provenienti dal suo blocco sociale. E di questo qualche forza politica dovrà tenere conto e farsene carico.
